- Mara camminava
veloce, rasentava i muri delle case, evitando d'entrare
nei coni di luce dei lampioni. Pareva una che si fosse
ricordata solo all'ultimo di un appuntamento importante e
s'affrettasse per non arrivare troppo in ritardo. A
tratti rallentava, s'avvicinava ad una figura che
risaltava nella luce, si fermava, parlava, poi si
rimetteva in cammino. Sapevo che chiedeva: " Hai visto
Giada? " e seguiva indizi vaghi e incerti:
- " E'da un po'che non la si vede."
- " L'ultima volta era all'angolo della
provinciale."
- " Penso che Raul se la sia portata a casa.
"
- " Ma é poi vero che s'é inguaiata?
"
- Niente, non veniva fuori niente.
- " Credo che sia tornata al paese. "
- " Dev'esser scappata, non ha voluto abortire. Guai
se Raul la trova. Ha promesso che l'ammazza..."
- " Se non ha detto niente a te che eravate sempre
insieme, figurati se ha detto qualcosa a me! "
- " Sì, va bene, se imparo qualcosa, te lo
faccio sapere: prometto."
- " D'accordo, d'accordo. Ma adesso vai, se no mi
fai perdere i clienti..."
- Mara era stanca, sentivo la sua stanchezza
battermi nelle ossa, eppure cercava ancora e ormai la
notte si sfaceva in un'oscurità densa e
caliginosa, per strada non c'era più nessuno,
nessuno cui chiedere. Era arrivata al ponte:
appoggiò le braccia all'alta spalletta, antica e
consumata dal tempo e dalle braccia e dai gomiti che vi
si erano strusciati sopra, e si prese il capo fra le
mani, in un gesto di disperazione.
- Ci aveva sperato, ci aveva creduto nella ricerca.
Ma ci sarebbero state altre notti. Avrebbe continuato a
cercare.
- D'improvviso l'uomo le fu accanto, prese alla
sprovvista anche me. Non l'avevo avvertito arrivare. Le
diede uno strattone e la gettò a terra, qualcosa
di lucente ebbe un barbaglio di luce. Mara gridò.
- Fui sopra l'uomo. Era forte e giovane, ma io ero
fuori di testa e sapevo far male. Lo colpii e fui
colpito. Caddi sopra di lui e gli pesai addosso, si
liberò un braccio, una mano armata di una lama
lunga e affilata si proiettò verso la mia gola.
Mara urlò. Afferrai l'artiglio e lo allontanai da
me, torsi il braccio, sentii un gemito, un rantolo, e
tutto finì.
- Semplicemente finì. Raul stava disteso a
terra con il suo coltello piantato nel petto come un
paletto di legno nel cuore di un qualche essere immondo.
- L'avevo ucciso, s'era ucciso, io, lui, la lotta,
la rabbia, la paura s'erano mescolate e avevano partorito
quella morte.
- Mara piangeva. S'era lasciata andare per terra,
con le spalle che davano alla sponda del fiume. Mi
avvicinai e la feci alzare.
- " E'finita, e'finita." le dissi e mi accorsi del
sangue che le scorreva lungo la guancia, là dove
la lama di Raul l'aveva sfregiata. Infilai la mano nella
tasca del suo cappotto, ne trassi un fazzoletto, le
tamponai la ferita.
- " Dobbiamo andare a casa." dissi
- " L'hai ucciso."
- " E'morto." risposi.
- Avevamo molta strada da fare ed ormai era l'alba.
Dovevamo andarcene. In fretta. Prima che lo
trovassero.
- Erano tempi quelli in cui la morte di uno come
Raul non avrebbe fatto scalpore, non più di tanto,
ma morto ammazzato lo era e di omicidio si trattava.
Qualche ricerca l'avrebbero fatta. Forse sarebbero
risaliti a Mara. Forse no. Ma non potevo escluderlo:
sarebbe stato come chiuder gli occhi davanti ad una
possibilità spiacevole, ma non per questo da
escludersi.
- Ripensavo agli attimi precedenti, in ultima anlisi
erano stati pochi attimi, e stringevo forte Mara e
l'amavo come un disperato. In quel momento eravamo noi
due insieme le uniche persone sulla faccia del mondo.
Isolate dagli altri esseri umani, rottami alla deriva,
tronchi trascinati dalla corrente e sentivamo grande la
tentezione di lasciarci andare, cadere, trascinare. E il
fiume era lì e ci guardava e pareva in
attesa.
- " Andiamo a casa. " Mara si appoggiò a me,
mi strinse la mano e mi disse: " Ti amo. Lo sai, vero? "
- Ci allontanammo.
- Mara non volle andare a farsi curare lo
sfregio.
- " Si rimarginerà. " disse.
- Disinfettai la ferita, ma sapevo che ci sarebbero
voluti punti . Avvicinai i lembi di carne e li accostai
cercando di fermarli con garza e cerotti, ma era n lavoro
malfatto. Sarebbe rimasto un brutto segno. Glielo
dissi.
- Era stanca, ma sorrise mentre rispondeva: " Il mio
marchio, no? "
- Capii che quel segno avrebbe rappresentato per lei
la messa in pubblico dei suoi errori:
- " Vedete ? Guardate il mio viso! E'così che
sono dentro. " Autolesionismo. No. Sinceramente non
gliene poteva importare di meno d'essere o sembrare
bella. Capita, a volte e a me é capitato,
d'incontrare persone così: sinceralmente,
visceralmente indifferenti alle voci del mondo. Aveva
chiuso con il suo mestiere. E dunque che importava
l'aspetto? Aveva chiuso con la giovinezza. E allora? La
giovinezza é uno stadio doloroso d'inesperienza e
d'errori, di sussulti e tremori, di follie e
d'inquietudini. Ma era passata, finita. A quel tempo Mara
aveva trent'anni. Oggi, a trent'anni, una donna é
ancora una ragazza. Mara, a trent'anni chiedeva
quiete.
- Le accarezzai il capo, mi chinai e la baciai piano
sulle labbra;
- " Ti amo." le dissi.
- Mara annuì. Sorrise. Con gli occhi colmi di
lacrime.
- " Sei il mio amore sfregiato. Sei la mia donna. -
continuai- Ce ne andiamo via, insieme. Dove non so, ma
insieme, questo importa. Non voglio che arrivi qualcuno a
far domande. "
- " Pensi che sia morto? "
- " E'morto. "
- " Il bambino era suo. Ero davvero innamorata di
Raul, sai, e quando capii che ero rimasta incinta, fui
contenta e pensai persino che se gli avessi detto che
aspettavo un figlio suo, mi avrebbe tirata fuori dalla
strada...ma, quando gliel'ho detto e il cuore mi batteva
da impazzire, mi ha riso in faccia! Dimostralo, mi ha
detto. Non mi ha creduto. E allora..."
- " E'morto. " ripetei.
- " Sì. "
- " Sdraiati e riposati. Io metto insieme un po'di
cose e fra un'ora massimo due, ce ne andiamo.
- " Va bene. "
- Si lasciò cadere sulla branda.
- Se fosse dipeso da me, me ne sarei andato di
volata, ma vedevo che era sfinita. E attesi. Si
assopì ed io mi guardai intorno pensando a che
cosa avrei dovuto portare via. La mia sacca sbrindellata,
certo. Ci ficcai dentro una coperta e due o tre maglioni
di Mara, una gonna pesante, e mi sovvenne che forse lei
avrebbe voluto le sue cose, quelle che ci si tira dietro
da un posto all'altro tutta la vita, perché
rappresentano qualcosa d'importante per te, solo per
te.
- Mi chinai, aprii lo sportello della stufa e
attizzai il fuoco: si levarono scintille di fiamma, e
lingue rosse balenanti si alzarono dai carboni
incandescenti. Le fissai e lentamente, molto lentamente
una porta incominciò ad aprirsi cigolando ed
immagni frastagliate, a frammenti, scollegate
incominciarono ad uscirne. Fluivano piano, in punta di
piedi, come per non spaventarmi. Le guardavo comparire, e
disporsi in ordine davanti alla mente e con gentilezza le
accarezzai una ad una, le belle e le brutte: erano la mia
vita.
- Ecco dunque com'ero stato, dove ero finito, che
cosa avevo fatto, di rovina in rovina, il passato si
ricomponeva, ogni tessera al suo posto, ordinatamente. La
mia vita.
- E c'erano le voci che mi parlavano, di mia madre,
stanca e dolente con in mano il foglio in cui si diceva
che mio fratello era morto, di mio padre che imprecava
violento e stramazzava al suolo, dei compagni, chi
rideva, chi sparava ordini, chi piangeva, delle vittime
tutte insieme un unico grido e ancora ancora fino al
rantolo di Raul.
- Era andata così. Le tempie pulsavano,
sentivo le vene risaltare gonfie sotto la pelle, le
scintille danzavano come in un sabba infernale davanti ai
miei occhi e chiaccheravano, chiaccheravano senza posa.
- Così posai la sacca, mi sedetti a terra e
le ascoltai.
- In ultima analisi raccontavano solo una storia. La
mia storia. Quella che avevo creduto d'aver smarrito
lungo la strada polverosa dei giorni trascorsi. Invece
era lì, ancora lì: la vedevo.
-
- Vedevo una casa vecchia, ma tenuta con cura, con
ampie stanze dai pavimenti piastrellati e lucidi, travi
antiche si snodavano nei soffitti e s'incontravano come
costole poderose che sapevano della forza della terra.
- La porta d'ingresso si spalancava su un'unica
grande camera, dirimpetto alla portafinestra che dava sul
giardino: tende leggere, bianche come le ali della
cavolaia, respiravano smosse dall'aria primaverile.
D'estate mia madre teneva le imposte accostate nelle ore
più calde, e la stanza rimaneva fresca nella
penombra impregnata dal pofumo dei fiori. Mia madre amava
i fiori, ma non quelli recisi.
- " Muoiono subito " diceva. Amava quelli in vaso,
quelli che la pianta nutre e fa sbocciare. Rivedevo le
gardenie e il gelsomino e i gerani rosa e rossi e
bianchi, nei portavasi di ceramica faentina decorata: mia
madre avrebbe dovuto avere una serra in cui vivere, ma
amava la grande casa bianca posata, come un colombo nel
nido, nella pianura, riparata dalle colline ed amava i
prati che la circondavano, il giardino con le siepi di
bosso e il grande pino argenteo nel centro, piantato da
mio nonno quando mio padre era nato e più in
là i campi lavorati dove si coltivava la terra che
era ricca e non faceva mancare nulla.
- Vedevo mio padre che andava a cavallo per le sue
terre e rientrando, scendeva ancora agile e forte e si
rivolgeva a mia madre minuta nell'abito chiaro, con quel
suo tono lento e gentile che sempre usava quando le
parlava. I padroni, li chiamavano i contadini e noi, i
figli, i signorini ci chiamavano.
- Nico aveva due anni più di me ed era un
torello, sempre a combinar danni, diceva mia madre, ma
erano le solite birichinate di un ragazzino vivace che a
volte doveva essere messo in riga ed allora interveniva
la voce di mio padre. Io ero più tranquillo, ero
nato prima del tempo e mia madre era quasi morta nel
darmi alla luce e dopo era rimasta un po'debole. Ero
gracile e meno vivace di Nico.
- Mi ammalavo con facilità e mia madre mi
seguiva sempre da vicino, per esser ben certa che non mi
raffreddassi o non prendessi troppo sole... Ricordavo
un'infanzia tranquilla, scandita dal passar delle
stagioni, mi rivedevo a correr per i prati, a volar
sull'altalena e poi c'erano state la scuola e le
punizioni quando ci si andava a cacciar in qualche
pericolo. Rivedevo le colline intorno ai campi, dolci ed
armoniche, solo qua e là segnate dalle lunghe
ferite frastagliate di profondi calanchi.
- Mio padre adorava Nico.
- Nico era splendido nell'uniforme, quel pomeriggio
quando lasciò la casa per andare in Africa, in
guerra. Mia madre piangeva, mio padre era torvo e
silenzioso, io invidiavo mio fratello per l'avventura che
l'attendeva. Nico baciò mia madre, strinse la mano
a mio padre, diede una gran pacca sulla spalla a me ed
uscì dalle nostre vite.
- Sei mesi dopo morì in una terra lontana ed
ostile, in una battaglia che i testi di storia ancora
ricordano, morì come si muore in tutte le guerre,
per la patria e l'onore. Così dissero a mio padre
quando vennero al funerale che si tenne ugualmente, anche
se il corpo di Nico stava a marcire sotto il sole di un
altro continente.
- " Quale patria?, urlò mio padre, Quale
onore? Non venite a raccontar coglionerie a me, signori
e, vi prego, uscite dalla mia casa, uscite dalla mia
terra. Fuori! "
- Mia madre non si riprese più e mio padre
divenne taciturno e burbero, a volte camminava per la
stanza grande e borbottava fra sè e sè cose
sull'impero, sulle manie di grandezza, sul fatto che la
miseria e l'ignoranza la facevano da padroni e i figli
venivan mandati al macello, " ...ma che onore! Politica,
solo giochi di politica!"
- Dopo qualche tempo incominciarono gli incendi nei
campi e poi incominciarono a morire le bestie di un male
oscuro e una notte anche la casa bianca andò a
fuoco: risentivo la voce di mia madre e delle serve in
camicia come fantasmi che gridavano di paura. Riuscimmo
tutti a uscire sani e salvi e dall'esterno vedemmo il
luogo dove avevamo vissuto venir divorato dalle fiamme,
sentivo ancora lo scoppio dei vetri che s'infrangevano
per il calore e il crepitare del fuoco che attaccava i
travi antichi.
- Mia madre morì.
- Mio padre ebbe un colpo e dopo poco ero solo,
senza più una famiglia. Vivevo nella casa che era
stata del fattore e che il fattore aveva lasciato per
andare sotto le armi, mentre sua moglie era ritornata dai
suoi vecchi, perché adesso c'era la guerra, quella
vera, sotto la finestra di casa, aerei lanciavano bombe
sulle città, lungo i binari della ferrovia e la
gente scappava e sfollava in campagna.
- Anch'io avrei dovuto fare la mia parte, per la
nazione e per l'onore della patria. Quel che feci lo feci
ricordando mio padre e le sue parole, mio fratello e la
sua morte, mia madre e la nostra casa: mi unii alla Volpe
dei monti e alla sua banda. Mi diedi alla macchia,
perché io in quella guerra non ci credevo. No,
davvero. Non condividevo gli ideali sbandierati nelle
piazze e scritti sui muri, non so a che cosa credessi in
realtà, so solo che non credevo a quella
guerra.
- Adesso so che non credo, non ho mai creduto in
nessuna guerra: morte e dannazione, inferno costruito
sulla terra dagli uomini per gli uomini con tutti a
urlare le loro ragioni, il loro diritto sacro a essere i
vincitori.
- Non esistono guerre sante, esistono ambizione,
fame di potere, odio, e un oceano di steminata follia.
-
- Il tempo se ne andava veloce sui monti, mentre
passavamo da capanno a capanno, da baracca a baracca,
aiutati da gente sfinita e insieme fiduciosa, che ci dava
pane ed informazioni, perché eravamo un gruppo di
forti e coraggiosi, si diceva, non temevamo il pericolo,
anzi ci imbarcavamo in imprese azzardate quasi al limite
delle possibilità umane, sprezzanti del pericolo,
convinti com'eravamo d'avere una sorta di missione da
compiere: salvare il nostro mondo dalla rovina. Si
parlava fra di noi di quel che era giusto e di quel che
era ingiusto. Morire di fame era ingiusto.
- " Ci dev'esser pane per tutti. Anche i poveri
hanno diritto a campare. "
- " Pane e formaggio, vuoi dire. " Si
rideva.
- " Cosa ridi, sei ancora un bamboccio. Cosa ne vuoi
sapere? "
- " Non é solo questione di ricchi e poveri,
é anche un problema di libertà, lo sapete
bene."
- " Libertà. Sì. Ma liberi saremo,
vedrete. E liberi di tornarcene a casa e di dire quel che
vogliamo e di fare ...e andare e venire...liberi.
"
- " Meglio liberi e affamati che a pancia piena dir
sempre di sì e pensare di no. "
- " Vero, ragazzo. Ma liberi a pancia piena é
meglio, credi a me. "
- Si rideva e si parlava nel buio, a scaldarci con
due braci accese, in attesa dei convogli del nemico.
-
- Aprii lo sportello della stufa, presi
l'attizzatoio annerito e mossi il carbone: si levarono
scintille. Mara respirava piano, in un sonno così
sottile che sarebbe bastato uno scricchiolio per
destarla.
-
- Il nemico, uomini in uniforme, su camion, su
autoblindo, su moto con sidecar, a piedi, su carri
armati, uomini come noi. Come noi destinati ad uccidere
per non essere uccisi. Li odiavamo. Me lo risentivo in
bocca il ricordo del sapore di quell'odio, amaro come
fiele.
- Quanti la Volpe e i suoi avevano atteso ed ucciso,
rubando fucili, mitra e munizioni e giberne. Rividi la
sera in cui, affamati come eravamo, ci si buttò a
rovistare come predatori nelle sacche e venne fuori di
tutto un po'. Io trovai anche un pacchetto di lettere e
una foto di una giovane. Le lettere non le capivo e poi
non le avrei mai lette, ma la foto la guardai,
un'istantanea ben riuscita di una fanciulla sui
vent'anni, capelli biondi e occhi grandi. La fidanzata?
La moglie? Sorrideva e ancora non sapeva che il suo uomo
era steso nel fango dove l'avevamo lasciato insieme agli
altri.
- Ma ci sentivamo giustizieri. Qualcuno, non so chi,
noi stessi forse, da soli, ci eravamo dati il compito di
difendere la terra che era nostra, non ci si voleva
sottomettere né alle idee che non ci appertenevano
né a quegli stranieri che presidiavano i nostri
paesi, razziavano le nostre bestie, si godevano le nostre
donne, decidevano per il bene e per il male: quello che
per loro era il bene e il male.
- Noi eravamo il loro male e ne andavamo fieri.
Anch'io.
-
- Chiusi lo sportello della stufa e guardai Mara.
Dormiva. C'era dunque voluta un'altra morte, quella di
Raul, per far tornare alla mente la coscienza del
passato. Scherzi del destino. Ma ora che sapevo chi ero,
non potevo più scherzare, perché tutto meno
che uno scherzo era stato quel lottare da bestie selvagge
a strapparci la preda l'un l'altro, un tempo ferino,
iniquo e non si deve dimenticare l'iniquità, si
deve imparare dai ricordi.
- Avrei dato la testa contro il muro, ma non sarebbe
servito. Mi domandai:
- " Perché? Ma perché? "
- C'era la guerra, questo sì, ma non bastava,
non poteva bastare a giustificare tutto quello che mi
tornava alla mente.
- Poi, di colpo, l'animo si contrasse in un sussulto
di dolore e chiusi gli occhi, non vedevo più
niente, eppure sapevo che c'era dell'altro..., dell'altro
galleggiava in una nebbia fitta, a banchi gelidi e
penetranti, rifiutandosi di uscire alla luce, di
lasciarsi riconoscere.
- Stancamente mi dissi che almeno avrei potuto dire
a Mara il mio nome, l'avrei svegliata, l'avrei baciata,
le avrei detto: " Ti amo. " e poi: " Mi chiamo Aldo, Aldo
Grechi...", sarebbe stata contenta, lo sapevo, se le
avessi raccontato di me.
- Mi avvicinai alla branda, le toccai la spalla,
sussultò e aprì gli occhi:
- " E' ora? " chiese. Sì, era ora di
andarcene via. Di tornare a casa.
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