LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
I grandi poeti contemporanei
Pier Paolo Pasolini Poesie in italiano
- Il canto popolare
- Improvviso il mille novecento
- cinquanta due passa sull'Italia:
- solo il popolo ne ha un sentimento
- vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
- la modernità, benché sempre il più
- moderno sia esso, il popolo, spanto
- in borghi, in rioni, con gioventù
- sempre nuove - nuove al vecchio canto -
- a ripetere ingenuo quello che fu.
- Scotta il primo sole dolce dell'anno
- sopra i portici delle cittadine
- di provincia, sui paesi che sanno
- ancora di nevi, sulle appenniniche
- greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
- i nuovi colori delle tele, i nuovi
- vestiti come in limpidi roghi
- dicono quanto oggi si rinnovi
- il mondo, che diverse gioie sfoghi...
- Ah, noi che viviamo in una sola
- generazione ogni generazione
- vissuta qui, in queste terre ora
- umiliate, non abbiamo nozione
- vera di chi è partecipe alla storia
- solo per orale, magica esperienza;
- e vive puro, non oltre la memoria
- della generazione in cui presenza
- della vita è la sua vita perentoria.
- Nella vita che è vita perché assunta
- nella nostra ragione e costruita
- per il nostro passaggio - e ora giunta
- a essere altra, oltre il nostro accanito
- difenderla - aspetta - cantando supino,
- accampato nei nostri quartieri
- a lui sconosciuti, e pronto fino
- dalle più fresche e inanimate ère -
- il popolo: muta in lui l'uomo il destino.
- E se ci rivolgiamo a quel passato
- ch'è nostro privilegio, altre fiumane
- di popolo ecco cantare: recuperato
- è il nostro moto fin dalle cristiane
- origini, ma resta indietro, immobile,
- quel canto. Si ripete uguale.
- Nelle sere non più torce ma globi
- di luce, e la periferia non pare
- altra, non altri i ragazzi nuovi...
- Tra gli orti cupi, al pigro solicello
- Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
- d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
- di Toscana, con strilli di rondinini:
- Hor atorno fratt Helya! La santa
- violenza sui rozzi cuori il clero
- calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
- feroce nel feudo provinciale l'Impero
- da Iddio imposto: e il popolo canta.
- Un grande concerto di scalpelli
- sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
- sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
- suona, giganteggiando il travertino
- nel nuovo spazio in cui s'affranca
- l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
- jersera... ripete con l'anima spanta
- nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
- resta nel popolo. E il popolo canta.
- Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
- e trepidi nel vento napoleonico,
- all'Inno dell'Albero della Libertà,
- tremano i nuovi colori delle nazioni.
- Ma, cane affamato, difende il bracciante
- i suoi padroni, ne canta la ferocia,
- Guagliune 'e mala vita! in branchi
- feroci. La libertà non ha voce
- per il popolo cane. E il popolo canta.
- Ragazzo del popolo che canti,
- qui a Rebibbia sulla misera riva
- dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
- è vero, cantando, l'antica, la festiva
- leggerezza dei semplici. Ma quale
- dura certezza tu sollevi insieme
- d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
- tuguri e grattacieli, allegro seme
- in cuore al triste mondo popolare.
- Nella tua incoscienza è la coscienza
- che in te la storia vuole, questa storia
- il cui Uomo non ha più che la violenza
- delle memorie, non la libera memoria...
- E ormai, forse, altra scelta non ha
- che dare alla sua ansia di giustizia
- la forza della tua felicità,
- e alla luce di un tempo che inizia
- la luce di chi è ciò che non sa.
- 1952-53
- Verso le Terme di Caracalla
- Vanno verso le Terme di Caracalla
- giovani amici, a cavalcioni
- di Rumi o Ducati, con maschile
- pudore e maschile impudicizia,
- nelle pieghe calde dei calzoni
- nascondendo indifferenti, o scoprendo,
- il segreto delle loro erezioni...
- Con la testa ondulata, il giovanile
- colore dei maglioni, essi fendono
- la notte, in un carosello
- sconclusionato, invadono la notte,
- splendidi padroni della notte...
- Va verso le Terme di Caracalla,
- eretto il busto, come sulle natie
- chine appenniniche, fra tratturi
- che sanno di bestia secolare e pie
- ceneri di berberi paesi - già impuro
- sotto il gaglioffo basco impolverato,
- e le mani in saccoccia - il pastore
- migrato
- undicenne, e ora qui, malandrino e
- giulivo
- nel romano riso, caldo ancora
- di salvia rossa, di fico e d'ulivo...
- Va verso le Terme di Caracalla,
- il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
- che il feroce Frascati ha ridotto
- a una bestia cretina, a un beato,
- con nello chassì i ferrivecchi
- del suo corpo scassato, a pezzi,
- rantolanti: i panni, un sacco,
- che contiene una schiena un po' gobba,
- due cosce certo piene di croste,
- i calzonacci che gli svolazzano sotto
- le saccocce della giacca pese
- di lordi cartocci. La faccia
- ride: sotto le ganasce, gli ossi
- masticano parole, scrocchiando:
- parla da solo, poi si ferma,
- e arrotola il vecchio mozzicone,
- carcassa dove tutta la giovinezza,
- resta, in fiore, come un focaraccio
- dentro una còfana o un catino:
- non muore chi non è mai nato.
- Vanno verso le Terme di Caracalla
- Sesso, consolazione della miseria!
- Sesso, consolazione della miseria!
- La puttana è una regina, il suo trono
- è un rudere, la sua terra un pezzo
- di merdoso prato, il suo scettro
- una borsetta di vernice rossa:
- abbaia nella notte, sporca e feroce
- come un'antica madre: difende
- il suo possesso e la sua vita.
- I magnaccia, attorno, a frotte,
- gonfi e sbattuti, coi loro baffi
- brindisi o slavi, sono
- capi, reggenti: combinano
- nel buio, i loro affari di cento lire,
- ammiccando in silenzio, scambiandosi
- parole d'ordine: il mondo, escluso, tace
- intorno a loro, che se ne sono esclusi,
- silenziose carogne di rapaci.
- Ma nei rifiuti del mondo, nasce
- un nuovo mondo: nascono leggi nuove
- dove non c'è più legge; nasce un nuovo
- onore dove onore è il disonore...
- Nascono potenze e nobiltà,
- feroci, nei mucchi di tuguri,
- nei luoghi sconfinati dove credi
- che la città finisca, e dove invece
- ricomincia, nemica, ricomincia
- per migliaia di volte, con ponti
- e labirinti, cantieri e sterri,
- dietro mareggiate di grattacieli,
- che coprono interi orizzonti.
- Nella facilità dell'amore
- il miserabile si sente uomo:
- fonda la fiducia nella vita, fino
- a disprezzare chi ha altra vita.
- I figli si gettano all'avventura
- sicuri d'essere in un mondo
- che di loro, del loro sesso, ha paura.
- La loro pietà è nell'essere spietati,
- la loro forza nella leggerezza,
- la loro speranza nel non avere speranza.
- Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
- Li osservo, questi uomini, educati
- ad altra vita che la mia: frutti
- d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
- quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
- storica di Roma. Li osservo: in tutti
- c'è come l'aria d'un buttero che dorma
- armato di coltello: nei loro succhi
- vitali, è disteso un tenebrore intenso,
- la papale itterizia del Belli,
- non porpora, ma spento peperino,
- bilioso cotto. La biancheria, sotto,
- fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
- che trapela il suo umido, rosso,
- indecente bruciore. La sera li espone
- quasi in romitori, in riserve
- fatte di vicoli, muretti, androni
- e finestrelle perse nel silenzio.
- È certo la prima delle loro passioni
- il desiderio di ricchezza: sordido
- come le loro membra non lavate,
- nascosto, e insieme scoperto,
- privo di ogni pudore: come senza pudore
- è il rapace che svolazza pregustando
- chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
- essi bramano i soldi come zingari,
- mercenari, puttane: si lagnano
- se non ce n'hanno, usano lusinghe
- abbiette per ottenerli, si gloriano
- plautinamente se ne hanno le saccocce
- piene.
- Se lavorano - lavoro di mafiosi
- macellari,
- ferini lucidatori, invertiti commessi,
- tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
- manovali buoni come cani - avviene
- che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
- troppa avita furberia in quelle vene...
- Sono usciti dal ventre delle loro madri
- a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
- preistorici, e iscritti in un'anagrafe
- che da ogni storia li vuole ignorati...
- Il loro desiderio di ricchezza
- è, così, banditesco, aristocratico.
- Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
- a vincere l'angosciosa scommessa,
- a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
- La nostra speranza è ugualmente
- ossessa:
- estetizzante, in me, in essi anarchica.
- Al raffinato e al sottoproletariato spetta
- la stessa ordinazione gerarchica
- dei sentimenti: entrambi fuori dalla
- storia,
- in un mondo che non ha altri varchi
- che verso il sesso e il cuore,
- altra profondità che nei sensi.
- In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
Nuovi epigrammi (1958-59)
- Alla bandiera rossa
- Per chi conosce solo il tuo colore,
- bandiera rossa,
- tu devi realmente esistere, perché lui
- esista:
- chi era coperto di croste è coperto di
- piaghe,
- il bracciante diventa mendicante,
- il napoletano calabrese, il calabrese
- africano,
- l'analfabeta una bufala o un cane.
- Chi conosceva appena il tuo colore,
- bandiera rossa,
- sta per non conoscerti più, neanche coi
- sensi:
- tu che già vanti tante glorie borghesi e
- operaie,
- ridiventa straccio, e il più povero ti
- sventoli.
Poesie incivili (aprile 1960) - Frammento alla morte
- Vengo da te e torno a te,
- sentimento nato con la luce, col caldo,
- battezzato quando il vagito era gioia,
- riconosciuto in Pier Paolo
- all'origine di una smaniosa epopea:
- ho camminato alla luce della storia,
- ma, sempre, il mio essere fu eroico,
- sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
- Si coagulava nella tua scia di luce
- nelle atroci sfiducie
- della tua fiamma, ogni atto vero
- del mondo, di quella
- storia: e in essa si verificava intero,
- vi perdeva la vita per riaverla:
- e la vita era reale solo se bella...
- La furia della confessione,
- prima, poi la furia della chiarezza:
- era da te che nasceva, ipocrita, oscuro
- sentimento! E adesso,
- accusino pure ogni mia passione,
- m'infanghino, mi dicano informe, im
- puro
- ossesso, dilettante, spergiuro:
- tu mi isoli, mi dai la certezza della vita:
- sono nel rogo, gioco la carta del fuoco,
- e vinco, questo mio poco,
- immenso bene, vinco quest'infinita,
- misera mia pietà
- che mi rende anche la giusta ira amica:
- posso farlo, perché ti ho troppo patita!
- Torno a te, come torna
- un emigrato al suo paese e lo riscopre:
- ho fatto fortuna (nell'intelletto)
- e sono felice, proprio
- com'ero un tempo, destituito di norma.
- Una nera rabbia di poesia nel petto.
- Una pazza vecchiaia di giovinetto.
- Una volta la tua gioia era confusa
- con il terrore, è vero, e ora
- quasi con altra gioia,
- livida, arida: la mia passione delusa.
- Mi fai ora davvero paura,
- perché mi sei davvero vicina, inclusa
- nel mio stato di rabbia, di oscura
- fame, di ansia quasi di nuova creatura.
- Sono sano, come vuoi tu,
- la nevrosi mi ramifica accanto,
- l'esaurimento mi inaridisce, ma
- non mi ha: al mio fianco
- ride l'ultima luce di gioventù.
- Ho avuto tutto quello che volevo,
- ormai:
- sono anzi andato anche più in là
- di certe speranze del mondo: svuotato,
- eccoti lì, dentro di me, che empi
- il mio tempo e i tempi.
- Sono stato razionale e sono stato
- irrazionale: fino in fondo.
- E ora... ah, il deserto assordato
- dal vento, lo stupendo e immondo
- sole dell'Africa che illumina il mondo.
- Africa! Unica mia
- alternativa
- Pier Paolo Pasolini
- Ballata delle madri
- Mi domando che madri avete avuto.
- Se ora vi vedessero al lavoro
- in un mondo a loro sconosciuto,
- presi in un giro mai compiuto
- d'esperienze così diverse dalle loro,
- che sguardo avrebbero negli occhi?
- Se fossero lì, mentre voi scrivete
- il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
- o lo passate, a redattori rotti
- a ogni compromesso, capirebbero chi siete?
- Madri vili, con nel viso il timore
- antico, quello che come un male
- deforma i lineamenti in un biancore
- che li annebbia, li allontana dal cuore,
- li chiude nel vecchio rifiuto morale.
- Madri vili, poverine, preoccupate
- che i figli conoscano la viltà
- per chiedere un posto, per essere pratici,
- per non offendere anime privilegiate,
- per difendersi da ogni pietà.
- Madri mediocri, che hanno imparato
- con umiltà di bambine, di noi,
- un unico, nudo significato,
- con anime in cui il mondo è dannato
- a non dare né dolore né gioia.
- Madri mediocri, che non hanno avuto
- per voi mai una parola d'amore,
- se non d'un amore sordidamente muto
- di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
- impotenti ai reali richiami del cuore.
- Madri servili, abituate da secoli
- a chinare senza amore la testa,
- a trasmettere al loro feto
- l'antico, vergognoso segreto
- d'accontentarsi dei resti della festa.
- Madri servili, che vi hanno insegnato
- come il servo può essere felice
- odiando chi è, come lui, legato,
- come può essere, tradendo, beato,
- e sicuro, facendo ciò che non dice.
- Madri feroci, intente a difendere
- quel poco che, borghesi, possiedono,
- la normalità e lo stipendio,
- quasi con rabbia di chi si vendichi
- o sia stretto da un assurdo assedio.
- Madri feroci, che vi hanno detto:
- Sopravvivete! Pensate a voi!
- Non provate mai pietà o rispetto
- per nessuno, covate nel petto
- la vostra integrità di avvoltoi!
- Ecco, vili, mediocri, servi,
- feroci, le vostre povere madri!
- Che non hanno vergogna a sapervi
- - nel vostro odio - addirittura superbi,
- se non è questa che una valle di lacrime.
- E' così che vi appartiene questo mondo:
- fatti fratelli nelle opposte passioni,
- o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
- a essere diversi: a rispondere
- del selvaggio dolore di esser uomini.
- Supplica a mia madre
- E' difficile dire con parole di figlio
- ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
- Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
- ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
- Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
- è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
- Sei insostituibile. Per questo è dannata
- alla solitudine la vita che mi hai data.
- E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
- d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
- Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
- sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
- ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
- alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
- Era l'unico modo per sentire la vita,
- l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
- Sopravviviamo: ed è la confusione
- di una vita rinata fuori dalla ragione.
- Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
- Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile
- L'alba meridionale
- II
- Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
- del capitale, l'epifenomeno (infimo)
- dell'avanguardia. La polizia tributaria
- (quasi accertamento filosofico
- sugli incartamenti di un poeta)
- fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
- contaminati da carità, dolenti
- di inspiegabili consunzioni, e pieni
- di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
- però con mia gongolante leggerezza perché qua,
- non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
- Torno, e trovo milioni di uomini occupati
- soltanto a vivere come barbari discesi
- da poco su una terra felice, estranei
- ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
- della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
- riprendo a Roma le mie abitudini
- di bestia ferita, che guarda negli occhi,
- godendo del morire, i suoi feritori
- Alla mia nazione
- Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
- ma nazione vivente, ma nazione europea:
- e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
- governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
- avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
- funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
- una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
- Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
- pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
- tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
- Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
- proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
- E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
- che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
- Per leggere un articolo di Olivia Trioschi
- Per leggere " Le ceneri di Gramsci"
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