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- La follia di mio
padre
-
- È seduta proprio davanti a
me e sembra quasi che quello sia il suo posto da
sempre. Invece non so praticamente nulla di lei, delle
sue fantasie, della sua imprevedibilità,
dell'indifferenza totale che oppone ad ogni mia
sollecitazione e di quel mondo curioso ed esclusivo in
cui si ostina a trascinare il vecchio corpo di mio
padre.
- Nell'aria si percepisce facilmente
la mia totale inadeguatezza alla
situazione.
- Provo a respirare.
- Fra di noi c'è soltanto
questo esplicito spazio di incomunicabilità,
occupato ora per l'occasione dal vecchio tavolo in
legno della cucina e da un paio di bicchieri vuoti che
aspettano forse un poco di vino. I suoi gomiti sono
piantati con forza sul tavolo e gli avambracci tesi
servono da sostegno per la testa che è
conservata con cura fra due mani rugose e concrete. Un
po' di saliva scivola giù da un angolo della
bocca e inumidisce una camicia azzurra.
- La guardo negli occhi ed è
davvero doloroso dover prendere atto ancora una volta
che neppure per un istante riesco ad attirare su di me
la sua attenzione. La follia di mio padre tende
infatti ad eludermi dal suo campo visivo, preferendo
piuttosto fluttuare nel vuoto lungo tutte le pareti
disponibili, soffermandosi in particolare sui disegni
impressi nella ceramica dei rivestimenti verticali,
alla ricerca affannosa di una collocazione più
consona a ricevere il suo prezioso
sguardo.
- E io resto qui accanto a lei,
immobile ad osservare il suo eterno pellegrinaggio che
sa di morte e di giorni perduti per sempre, con il
cuore che si schianterebbe volentieri al suolo se solo
gli permettessi di andare e una voglia irrefrenabile
di urlare che come sempre soffoco per evitare di fare
i conti con la mia stessa disperazione.
- Di nuovo provo a
respirare.
- E non c'è nessun altro
essere umano oltre me dentro questa casa. Nessuno. Mia
moglie è uscita due ore fa e non tornerà
prima che arrivi l'ora di cena. Le ho chiesto io di
allontanarsi. Lei non avrebbe voluto lasciarmi in
questa situazione, ma io le ho detto che andava tutto
bene e che avevo bisogno di restare da
solo.
- La follia di mio padre ora
s'ingegna in una nuova espressione. Sorride infatti
davanti a questo mio sconforto, e lo fa nel modo in
cui lo farebbe un padre davanti a un figlio che non
riesce a svolgere un elementare compito di matematica,
con la stessa compassione. Vuole forse tenere
inchiodata la mia attenzione su di lei e usa senza
remore le sue migliori armi di persuasione, quel
sorriso che mille volte ho visto su quella stessa
faccia e che mille volte mi ha aiutato a superare
l'ostacolo.
- Era un uomo intraprendente, mio
padre. Dodici anni fa, nonostante il parere negativo
di parenti e amici, aveva aperto una piccola
attività di vendita di moto dando fondo a tutti
i suoi risparmi e coprendosi di debiti fino al collo.
Si trattava di un insignificante negozio di quaranta
metri quadrati situato in un vicolo poco illuminato
del centro di Roma, la nostra città,
difficilmente raggiungibile per via della
perpetuità di alcuni lavori in corso e
assolutamente privo di luce solare. La stoffa marrone
applicata sui muri e un pavimento in pessimo stato
rendevano ancor più angosciante l'unica vetrina
disponibile.
- Così, sia pure dopo un
lungo periodo di transizione in cui gli affari
oscillavano fra alti e bassi senza soluzione di
continuità e in cui l'unica filosofia
ufficialmente accettata in casa nostra era il rispetto
della sobrietà e il controllo totale dei
consumi, ci fu finalmente una inaspettata svolta
commerciale. Mio padre ottenne una sorta di esclusiva
per la vendita dei motorini di una grande azienda
giapponese che aveva appena deciso di sondare il
mercato italiano, ma che fino a quel momento era
pressoché sconosciuta nel vecchio continente.
Quella di mio padre si rivelò subito come una
scelta felice e il nostro piccolo esercizio ebbe
un'improvvisa visibilità su tutto il territorio
cittadino. Il danaro cominciò ad affluire
copioso nelle nostre tasche, con il conseguente
improvviso miglioramento del nostro tenore di
vita.
- A quella scelta felice seguirono
altre scelte felici e a un certo punto le cose
andavano così bene che numerosi negozi con il
suo marchio, ormai diventato garanzia di
qualità, cominciarono ad apparire ovunque in
città e tutti i parenti e gli amici un tempo
detrattori finirono per entrare a far parte
dell'organigramma aziendale con buona pace delle loro
perplessità iniziali. Noi intanto potevamo
addirittura permetterci una nuova casa con annesso
giardino e un ufficio di due piani in un quartiere
signorile, con tanto di segretarie minigonnate e
straripanti all'occorrenza di sorrisi non richiesti e
gentilezze plastificate all'interno di frasi
ammiccanti e logore di consuetudine.
- Ciò che più
invidiavo a mio padre era il fatto che tutti i suoi
dipendenti lo amassero smisuratamente. Infatti non
passava una sola settimana senza che qualcuno di loro
entrasse nel mio ufficio per ricordarmi il cognome che
indossavo, abbracciandomi e sussurrandomi all'orecchio
che comunque anch'io un giorno, nel momento in cui
avessi preso in mano la gestione dell'azienda, mi
sarei dimostrato degno del talento del mio genitore.
Ma in realtà quegli incontri reiterati avevano
su di me l'unico effetto di rinnovare quel senso di
frustrazione e quel desiderio di trovarmi altrove che
mi avrebbero poi perseguitato per anni prima di
trovare il coraggio di fuggire via.
- Quel giorno in cui una delle
nostre segretarie entrò nella mia stanza e con
fare languido e suadente mi consegnò alcune
carte da firmare, facendo bene attenzione nello
sfiorare con la giusta dose di intenzioni il mio
braccio destro con le sue cosce seminude, capii
definitivamente che quello non era il mio
posto.
- I ricordi si sciolgono nell'aria
colpiti dall'incedere dei miei passi nervosi. Come un
pugno di polvere in un fascio di luce.
- La follia di mio padre continua
intanto nel suo viaggio ricognitivo all'interno della
cucina e mi fa sempre più rabbia rappresentare
l'unico spazio omesso dal suo raggio d'azione, l'unico
microcosmo inesplorato dalla sua febbrile ricerca.
Vorrei tanto farle capire di esistere, spiegarle che
anch'io come lei ho il diritto di essere considerato
per come sono, ma purtroppo non riesco a pronunciare
un sola sillaba e tutto ciò che ho dentro resta
ancora una volta confinato nell'angusta prigione del
mio malessere. Come quando cercavo di parlare a mio
padre e lui pretendeva di sentirsi dire soltanto
ciò che corrispondeva all'immagine che lui si
era fatto di me, e il mio tentativo di approccio senza
filtro doveva quindi necessariamente essere rimandato
a data da destinarsi.
- Nell'aria si avverte ancora la mia
inadeguatezza e allora mi faccio coraggio e le prendo
una mano trattenendola fra le mie che intanto
cominciano a sudare. La follia di mio padre non
reagisce almeno apparentemente al contatto e mi lascia
da solo a rianimare quel pezzo di carne grinzosa ormai
priva di vita e destinata a perenne inutilità.
Allora la stringo forte fino a farle male, ma neppure
questo tentativo riesce ad ottenere l'effetto voluto e
l'unica replica concessami è soltanto una
smorfia di dolore appena percettibile sul suo
viso.
- Dalla finestra aperta sul cortile
arrivano lontani echi di bambini in gioco e quasi mi
sembra di tornare indietro al tempo in cui padre mi
insegnava ad andare in bicicletta. Lievi fragranze di
caffè provenienti forse dall'appartamento
accanto distraggono i miei sensi
dall'immobilità diffusa che mio malgrado sono
costretto a infilare nei polmoni. La sua gamba destra
prende a tentennare nervosamente e mai come adesso mi
accorgo che di mio padre non è rimasto
più nulla in questo corpo che non vuole
arrendersi al tempo.
- Quando andai via fu per lui un
colpo mortale. Era un giorno di primavera splendido
come pochi altri e la mia lettera di dimissioni
aspettava impaziente il suo arrivo sopra una scrivania
grigia piena di carte. Avrei voluto dirgliele le
parole che gli avevo scritto, avrei voluto essere
presente nel momento del mio commiato, ma come al
solito il coraggio di affrontare la situazione non mi
sosteneva adeguatamente e allora optai per la
scrittura, genere che del resto mi è sempre
stato più congeniale. Quando entrò in
azienda infatti, io mi trovavo già su un
Intercity diretto a Firenze con una sola valigia
riposta sul portapacchi e tanta paura di conoscere il
mio domani.
- Non vidi perciò la
delusione scendere come un velo sul suo volto per
oscurare il suo aspetto di imprenditore in carriera e
anche più tardi, nonostante i miei ripetuti
sforzi, non riuscii mai ad immaginare la reazione che
ebbe quel giorno. A dire il vero adoperai ogni giorno
successivo alla mia fuga per tentare di rimuovere ogni
legame mentale che potesse ricondurmi al passato e per
sfilarmi di dosso quel personaggio scomodo che mi era
stato cucito sulla pelle senza il mio
consenso.
- E non seppi più nulla di
lui.
- E mai lo cercai.
- E mai mi cercò.
- Io nel frattempo avevo provveduto
a costruire una vita che potesse definirsi finalmente
mia a Firenze. Avevo conosciuto Monica e l'avevo
sposata nonostante il parere contrario dei suoi
genitori che la ritenevano ancora troppo giovane per
compiere un passo così importante. Avevo
trovato lavoro nell'amministrazione di una piccola
casa editrice che si occupava di arte e mi accingevo
alla ricomposizione graduale della mia
identità, sperando che la mia nuova sfera
affettiva si sovrapponesse in qualche modo a quel
grande senso di colpa che intanto si stava dilatando
dentro di me come una macchia d'olio su un foglio di
carta.
- E con quel grande senso di colpa,
appena stemperato dal mio amore per Monica, sono
sopravvissuto fino a una settimana fa, ovvero fino a
quando una lettera di un conoscente mi avvertiva che
mio padre si era gravemente ammalato ed aveva tentato
più volte il suicidio con tutti i mezzi
possibili, per cui era stato ricoverato in una clinica
e sottoposto ad una terapia che però lo avrebbe
ucciso comunque. Lo stesso conoscente mi informava
inoltre che l'azienda era andata in rovina per via dei
debiti che da tempo gravavano sul bilancio
dell'inettitudine conclamata dei nuovi proprietari del
marchio, una famiglia veneta di scarse vedute
commerciali. Quanto a mio padre, già da qualche
anno aveva abbandonato la sua stessa creatura e si era
ritirato a vita privata, lasciando alle ore e ai
giorni della sua oziosa vecchiaia il compito ingrato
di condurlo all'altare della follia.
- Non appena ricevuta la notizia mi
precipitai a Roma nella clinica in cui era stato
ricoverato e, con grande sollievo dei dottori, lasciai
ad intendere che da quel momento in poi mi sarei
occupato io di ciò che restava di mio
padre.
- Fu un colpo scoprire che non mi
riconosceva più. Stava lì, avvolto nella
sua tristezza dentro un lettino sudicio di incuria,
pallido e magro come un uomo appena raccolto dalla
strada, già perso nei suoi incubi
irraggiungibili. Lo osservai mentre muoveva la bocca
rapidamente, ma senza mai aprirla più di un
millimetro. Cercava invano di raccogliere le forze per
allungarsi a prendere un bicchiere d'acqua. Allora
presi il bicchiere e lo accostai alle sue labbra
lasciando che il liquido colasse giù nella gola
a placare il suo bisogno impellente. Quasi mi sembrava
di sognare. L'uomo che avevo davanti era dunque lo
stesso uomo che non ero mai riuscito a conquistare.
Com'era potuto finire così. Dove aveva smarrito
la sua strada. Quando era successo tutto ciò.
Perché lo avevo abbandonato.
- La follia di mio padre intanto si
è alzata in piedi e con l'ausilio di un bastone
si avvicina sempre più alla finestra
trascinando con sé due gambe sottili e
insicure. Mi avvicino a lei sbarrandole il passo. Mi
accosto al suo volto ormai scavato dagli anni. Non
l'ho mai visto così vecchio e stanco come in
questo momento. Ora i nostri occhi sono quasi a
contatto e la punta del mio naso ha già toccato
la sua. Le cingo la vita in un abbraccio che si trova
esattamente a metà tra l'amore eterno e il
desiderio di uccidere. La follia di mio padre cerca
invano di divincolarsi dilatando le pupille per
cercare un angolo dove non trovarmi e sfuggire di
nuovo al mio sguardo. La mia bocca è a un solo
centimetro dalla sua. Lascio finalmente partire
quell'urlo fortissimo che da sempre mi stazione
nell'anima, ed è semplicemente terribile
ascoltare l'eco di tutto quel dolore mai raccontato
che si libera in un'unica fragorosa
esplosione.
- Poi, in quel particolare e
disumano silenzio che segue ogni esplosione, non
riesco a trattenere un pianto che sa di cose non dette
e occasioni perdute. Il mio viso si adagia sulla sua
spalla ossuta. Ogni distanza si è frantumata.
Ogni barriera è stata abbattuta. Dietro di me,
sopra la mia spalla sinistra, altre lacrime si
sciolgono ancora, le sue, una per ogni giorno di
lontananza, una per ogni incomprensione, una per ogni
frammento di vita bruciato per sempre.
- Chiudo gli occhi.
- La follia di mio padre per un
attimo mi ha concesso la sua assenza. Fra poco
tornerà di nuovo ad occupare quel corpo e,
anche se continuerò a maledire il giorno in cui
è entrata in questa casa, non la
ringrazierò mai abbastanza per avermi regalato
l'ultimo soffio di vita dell'uomo che la vita mi ha
dato.
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