Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Roberto Taroni - Con questo racconto ha vinto il settimo premio del Concorso Letterario Fonopoli 1999 sezione narrativa
- Con questo racconto ha vinto PRIMO premio del concorso Concorso Letterario Marguerite Yourcenar 2000 sezione narrativa
- Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Club Poeti 1999, sezione narrativa
- Allucinazioni
- L'uomo d'affari sedeva al suo solito tavolo e mangiava da solo. Il cameriere si avvicinava di tanto in tanto per accertarsi che fosse soddisfatto del pranzo. Non chiedeva niente in realtà, ma proponeva soltanto una curiosa espressione di attesa evidentemente ben collaudata. Allora l'uomo d'affari, cinquant'anni o poco più, fingeva un colpetto di tosse e poi rispondeva con un piccolo sorriso di cortesia, quasi una smorfia, qualcosa a metà fra l'istinto naturale di replicare in modo corretto ad una gentilezza e l'incapacità di trovarsi a proprio agio fra i meccanismi stereotipati di una risposta banale. Sul tavolo una bottiglia d'acqua minerale quasi vuota, un tovagliolo sporco di sugo da almeno tre giorni ed un computer portatile chiuso in una valigetta di colore marrone. Un impermeabile blu di ottima fattura e un lunga sciarpa a quadri sistemati con estrema cura sulla spalliera di una sedia vuota.
- Ho bisogno di respirare
- Non mi bastano i talk-show altisonanti infarciti di presentatori che si parlano addosso e di ballerine che si calpestano a vicenda per ottenere un'inquadratura migliore.
- C'è una tele accesa sopra una mensola di legno. Nel suo rapido e violento straripare di voci e di suoni illumina i volti delle persone che sono sedute in questa sala, ma nello stesso tempo ne acquisisce gratuitamente i cervelli.
- Ho bisogno di respirare.
- Ne ho abbastanza di quest'aria sudicia e densa che sono costretto a infilare nei polmoni mio malgrado e che lentamente vuole uccidermi da dentro. Sono stanco di sfogliare una ad una le pagine della mia vita in questo modo incolore. Sono stanco della tele, del computer, del cellulare e di questo continuo logorio di rumori ed immagini che qualcuno insolentemente spaccia per progresso. Sono stanco di sentirmi prigioniero di questo giocattoli tecnologici e di pagare quotidianamente il prezzo dei miei trent'anni con il loro continuo pressing sul mio piccolo mondo.
- L'uomo d'affari leggeva il suo quotidiano aspettando l'arrivo del consueto caffè e in quel momento non c'era nulla al mondo che potesse disturbarlo. Nulla. Neppure gli sguardi curiosi e invadenti degli altri clienti che pure sembravano minare con una certa tenacia la sua disinvoltura. Il quotidiano era quasi sempre aperto sulla pagina delle notizie finanziarie e lui sembrava completamente immerso in macchinosi calcoli mentali di difficile interpretazione. La pelle si increspava sulla fronte e di tanto in tanto si trovava costretto a togliersi gli occhiali per poterla massaggiare con due dita. Le mani rugose e grassocce presentavano unghie tormentate da una dentatura nervosa.
- Ho voglia di urlare.
- Sì, esatto: urlare.
- Ora.
- Sento la mia voce dentro che vorrebbe sfogarsi in un suono potente e disarmonico. Sento che vorrebbe slegarsi da me e sottrarsi finalmente al mio autocontrollo. Sento che vorrebbe sciogliersi. La fermo. Le impedisco di uscire allo scoperto e la rispedisco indietro, ma l'operazione mi costa bruciore di stomaco e comunque non provoca alcuna riduzione percettibile del dolore. Nella mia mente si fa largo poco alla volta l'immagine di un vecchio tappo di bottiglia ormai logoro di lavoro.
- Non so per quanto tempo potrò farlo ancora.
- Non so per quanto tempo potrò impedirmi di urlare.
- C'è ancora qualcuno in sala e non vorrei fare brutta figura.
- Hanno i volti coperti di curiosità;
- Mi guardano.
- Mi vedono sudare.
- Fanno finta di nulla.
- Riprendono a ingurgitare i loro cibi e la loro indifferenza.
- Mi convinco che in fondo sono soli anche loro.
- Ma ho ancora voglia di urlare.
- L'uomo d'affari lasciava diecimila lire sotto un bicchiere prima di alzarsi e pagare il conto alla cassa. Lo faceva sempre. La cravatta, sempre la stessa, penzolava giù obliquamente sopra un pancione che si muoveva ingombrante fra i tavoli incontrando nel suo percorso sedie vuote o teste infastidite. L'omino della cassa, baffetti aguzzi e occhi rapidi da uccello rapace, lo salutava ogni volta con grande affabilità e approfittava di quei pochi secondi a sua disposizione per scambiare due parole sull'andamento della borsa valori e chiedere eventualmente qualche consiglio tecnico per investire con profitto il proprio danaro. Naturalmente l'omino della cassa non avrebbe mai scommesso una lira su quei consigli, ma all'uomo d'affari faceva piacere sentirsi chiedere cose del genere e anche per questo motivo amava così tanto frequentare quell'infinito locale durante la sua pausa pranzo.
- Ho voglia di fuggire.
- Non saprei dove, ma fuggire.
- Lontano immagino, ma non riesco a formulare un'idea.
- Sto per alzarmi. Cerco di raccogliere le mie forze. Sto per scattare. Ma un cameriere allunga una mano sulla mia spalla e mi costringe a restare seduto. Ha gli occhi grigi e furbi e un volto che non lascia trasparire emozioni; inoltre c'è qualcosa nel suo atteggiamento che mi è molto familiare.
- Mi chiede se va tutto bene e se sono soddisfatto del pranzo.
- Rispondo che va tutto bene.
- Sorride.
- Gli chiedo perché mai oggi l'uomo d'affari non si è fatto vedere al ristorante.
- Risponde che nessun uomo d'affari ha mai mangiato in quel ristorante. Che altrimenti se ne sarebbe ricordato.
- Insisto. Gli faccio presente che c'è un uomo di circa cinquant'anni che viene a mangiare lì tutti i giorni esattamente come me. Indico il tavolo dove l'ho visto più volte aprire e richiudere il suo giornale prima di sorseggiare il suo caffè. Tengo a precisare che ne sono oltremodo sicuro perché anch'io come lui mangio tutti i giorni in quel posto avendo appena aperto una piccola attività proprio lì vicino.
- Il cameriere risponde confermando di avermi visto tutti i giorni ma continua ad insistere che nessun uomo corrispondente alla mia descrizione ha mai varcato la soglia di quel ristorante da quando lui è in servizio, ovvero da tre anni. Aggiunge che il tavolo che ho indicato non viene usato per servire i clienti ma solo come ripiano di servizio.
- Nella sala gli ultimi clienti, testimoni silenziosi della mia follia, ascoltano con attenzione il nostro dialogo. Ma ormai non c'è più nulla da dire. Il cameriere se ne è già andato in cucina ed io sono qui in piedi davanti al baratro in fondo al quale fluttua indisturbata la mia paura del domani.
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