- Hikmet è
uno di quei poeti che si incrociano spesso, e quasi
sempre senza saperlo. I suoi versi vagano
nell'universo delle parole scritte e dette, diciamo
nell'immaginario collettivo, lasciando ovunque quel
loro inconfondibile aroma di rosa e miele. Due
esempi a caso, gli ultimi in ordine di tempo? Un
film, Le fate ignoranti. Non un film di cassetta,
un bel film che come di rado accade, per qualche
misteriosa alchimia, diventa un film di successo
nonostante la sua qualità. I due
protagonisti, donna e uomo, legati dall'amore per
lo stesso uomo - morto - di cui la prima era la
legittima moglie e il secondo il clandestino
amante, scoprono di aver dato vita a un triangolo
di passione alimentata dalle poesie di Hikmet.
Secondo esempio, un fumetto, di quelli che
potrebbero avere diritto d'asilo in tutte le case
perché non offendono né il gusto
né l'intelligenza: Julia, giovane e
sofisticata criminologa dal viso aristocratico e
dolce di Audrey Hepburn, riceve da un anonimo
spasimante, che poi si scoprirà essere
l'adolescente figlio della domestica, rose e versi.
Questi versi: anima mia/ chiudi gli occhi / piano
piano / e come s'affonda nell'acqua / immergiti nel
sonno / nuda e vestita di bianco / il più
bello dei sogni / ti accoglierà. Julia
legge, chiude gli occhi, si distende nell'incanto
di quelle parole, sogna. Come lei, uomini e donne
di ogni paese del mondo - Hikmet è stato
tradotto in più di cinquanta lingue - si
lasciano sedurre dalle sue poesie: perché
hanno un segreto, qualcosa di speciale che le
distingue da tutte le altre. Sono semplici,
semplici e potenti insieme: ogni singolo verso ha
tutta la potenza della semplicità. Non
c'è nulla di complicato nelle poesie di
Hikmet: tutto è chiaro e sereno, aperto,
offerto al lettore con il gesto più antico
dell'ospitalità: vieni, qui c'è acqua
fresca per te, bevi. Non ci sono significati
nascosti, tentazioni metafisiche, non c'è
contrasto né tensione tra cielo e terra, tra
ideale e reale. Tutto è profondamente e
intrinsecamente umano, imbevuto di passione
profonda e amore autentico per l'uomo; l'uomo
così com'è, non come si vorrebbe che
fosse. L'uomo nonostante i suoi egoismi, le sue
crudeltà, le sue ingiustizie. L'uomo per
quel che potrebbe diventare se imparasse la legge
dell'amore e della solidarietà. Hikmet
queste leggi le aveva imparate, per quel che
è possibile quando si è fatti di
carne e sangue, e ha anche cercato di applicarle
con un impegno personale che non è mai
venuto meno nonostante le persecuzioni, il carcere,
la tortura, l'esilio. A testimonianza del fatto che
essere coerenti si può, anche se si paga.
Talvolta molto caro. Il prezzo, per lui, è
stato particolarmente alto.
-
- E dire che Nazym
Hikmet era nato sotto auspici decisamente
fortunati, avvolto dalla solidità economica
e dal prestigio sociale di una famiglia ricca,
potente, ossequiata.
- Era il lontano
1902. Esattamente cent'anni fa, ma sotto certi
aspetti si potrebbe anche pensare che di anni ne
siano passati mille. Il mondo era assai diverso,
nel 1902, e conservava molti dei tratti che aveva
avuto per secoli. L'Europa era ancora il centro del
mondo, e difatti il mondo se l'era spartito con
grande cura, tracciando precise rette che
tagliavano a fette grandi e piccole ampie zone
degli altri continenti. Provate a guardare una
cartina politica dell'Africa: le frontiere degli
stati non seguono i confini naturali - fiumi,
catene montuose - come avviene in Europa. No,
lì gli stati non si sono configurati ad
opera della morfologia e della storia; sono opera
di geometri e architetti dello sfruttamento di
risorse, riuniti per l'occasione a Berlino pochi
anni prima che nascesse Hikmet. Nel 1885 gli
europei, inglesi francesi e tedeschi in testa,
stretti intorno al tavolo delle trattative,
avviarono il balletto del "tocca a me tocca a te" e
lottizzarono tutto quel che si poteva lottizzare
nel mondo. L'America, intesa come Stati Uniti, era
ancora molto lontana, intenta a occuparsi del suo
"cortile di casa"; solo quando a qualche potenza o
ex potenza europea saltava in mente di mettere il
piedino nell'America Latina lo zio Sam prontamente
interveniva (come ben si vide nel brevissimo
conflitto ispano americano del 1898, quando gli
americani aiutarono Cuba a liberarsi del dominio
spagnolo, offrendo soldati, cannoni e ovviamente
disinteressata protezione da lì fino,
potenzialmente, al giorno del giudizio). Era
l'epoca dell'imperialismo, della positivistica
fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive"
dell'umanità, del capitalismo trionfante,
delle stole di ermellino argentato, delle tube di
seta nera, dei bastoni con il manico d'avorio e
delle cortigiane di lusso, sovente attrici o
ballerine, cui principi e capitani d'industria
regalavano diamanti e appartamenti di lusso.
L'Europa celebrava se stessa a ritmo di can can. La
chiamavano Belle Epoque, e frizzava come lo
champagne. Ma antichi rancori e moderne cupidigie
covavano sotto la brace ardente di ricchezza e
benessere di quell'epoca bella e dissennata. La
Francia aspettava la resa dei conti con la Germania
dopo la disfatta del 1870, quando l'esperienza
straordinaria della Comune di Parigi era finita
spalle al muro, e di fronte il plotone
d'esecuzione; Inghilterra e Russia guardavano con
sospetto quel Reich tedesco che sembrava sempre
più affamato di cannoni e guardava
volentieri all'est europeo, come se volesse portare
a compimento il suo secolare Drang nach Osten; e
tutti quanti, Francia Inghilterra Germania e
Russia, e persino la minuscola Italia (dagli occhi
sempre più grandi della pancia, come ben sa
e recita la saggezza popolare) avevano l'acquolina
in bocca se appena volgevano lo sguardo verso la
penisola balcanica: perché lì c'era
la preda più appetitosa e disponibile,
più succulenta e indifesa. Lì c'era
l'antico e glorioso impero ottomano, la spina
musulmana nel fianco della cristianissima europea,
il nemico di sempre: il turco, che con la sua
scimitarra affilata aveva osato spingersi fino alle
porte di Vienna. Erano passati due secoli, ma
nessuno l'aveva dimenticato. I tempi della storia
sono lunghi, non infiniti.
-
- Il turco, nel
1902, agonizzava. Era già da un secolo che
le fameliche potenze europee avevano cominciato a
strappare dal corpo dell'impero brandelli di
territorio, mentre altri frammenti si staccavano
per conto loro. Era già da un secolo che i
sultani, a fasi alterne, cercavano di mettere delle
pezze riformando qualcosa, aggiustando
qualcos'altro, allentando un po' la morsa
dell'oppressione fiscale e religiosa che da sempre
stringeva il mosaico di popoli sottomessi. Senza
alcun risultato: troppo timide le riforme, troppo
prepotente il fiume della storia. L'impero ottomano
aveva fatto il suo tempo, e di lì a poco
sarebbe giunta la fine, convulsa e ridicola come
tutte le fini. Chi non ricorda come finì
Roma caput mundi? Nel salone polveroso e scuro
della corte di Ravenna, dove l'ultimo imperatore,
un ragazzino che pomposamente portava il nome del
fondatore e ironicamente quello deformato del primo
grande imperatore, Romolo Augustolo, giocava
rincorrendo galline sotto le ampie e buie volte
mentre il generale degli eruli, ma poteva essere
chiunque altro, prelevava le insegne imperiali
inviandole con gesto di formale ossequio
all'imperatore d'Oriente. Così finì
Roma, e non se ne accorse nessuno perché
tanto era già finita da tempo. Così
finì l'impero ottomano, quando un gruppo di
giovani - i Giovani Turchi, per l'appunto - depose
il sultano praticamente senza colpo ferire con
l'obiettivo di riformare in senso costituzionale e
democratico lo stato. Era il 1908, Hikmet aveva
solo sei anni e viveva a Salonicco, nella fastosa
dimora di famiglia, la casa dove era nato. Suo
padre, Hikmet bey, era capo dell'ufficio stampa del
governo Giovane-turco; sua madre, Aiscé
Jelilé, era, si dice, la più bella
donna dell'impero: pittrice, coltissima,
appassionata lettrice di poesia francese,
Baudelaire e Lamartine soprattutto, che recitava al
figlio in lingua originale perché le
traduzioni erano rarissime. «Mia madre
conosceva benissimo il francese - ricorderà
poi Hikmet - ma l'ottomano lo sapeva ancora meno di
me». Il turco ottomano, che non è la
lingua turca, era formato da parole arabe e
persiane, e anche le regole grammaticali e
sintattiche erano arabe e persiane; in questa
lingua scriveva il nonno paterno, Nazim
pascià, poeta e governatore di varie
province, appartenente alla setta dei
Mevlevè, dervisci vagabondi che derivavano
il loro nome dal poeta Mevlana Gelaleddin. «Le
poesie di mio nonno erano dogmatiche, didattiche,
religiose. Non le capivo ma ero il nipote di un
nonno poeta». Si capisce come mai la poesia,
in quella casa, fosse sugli altari: il nonno gli
leggeva i componimenti di Mevlana, la madre gli
spiegava Baudelaire. E non era finita lì:
l'altro nonno, quello materno, Enver pascià,
era figlio di un nobile polacco, fuggito dalla
Siberia zarista e fattosi musulmano, ed era
filologo e storico di grande valore; aveva sposato
la figlia di un tedesco, anche lui diventato
musulmano, che era stato plenipotenziario ottomano
al congresso di Berlino. Una famiglia potente, come
si vede, dove prestigio e cultura camminavano a
braccetto, dove Oriente e Occidente si mescolavano:
i due nonni, entrambi pascià, signori di
alto rango, non tenevano harem ed erano monogami
all'uso occidentale. Inevitabile che in un ambiente
familiare così vario e ricco di stimoli il
giovanissimo Nazym crescesse pieno di
curiosità, interessi e voglia di scrivere. E
difatti, molto presto, cominciò a sua volta
a inventare poesie, e a costruire giornaletti coi
compagni di scuola.
-
- «Avevo
tredici anni. Abitavamo a Istanbul. Scoppiò
un incendio di fronte alla nostra casa. Era la
prima volta che vedevo un incendio. Ne fui stupito
ed ebbi paura. Mio nonno, affinché
l'incendio non arrivasse a casa nostra, si mise in
piedi davanti alla finestra, brandendo il Corano
aperto. L'incendio si spense, ma non per la forza
del Corano, e nemmeno per quella dei pompieri; si
spense da solo, dopo aver incenerito la casa che
bruciava di fronte a noi. E io, due ore dopo,
scrissi la mia prima poesia, 'L'incendio'».
Quella poesia non esiste più, ovviamente.
Hikmet ricordava però di averla scritta in
ottomano, adottando la metrica arabo-persiana. La
seconda poesia, un anno dopo, era dedicata a uno
zio morto al fronte, ed era scritta in turco. Poi
Hikmet conobbe un altro poeta, Yaya Kemal, suo
professore di storia all'Accademia e frequentatore
del salotto di casa - «penso fosse innamorato
di mia madre» - che aveva inventato una lingua
poetica nuova. Suggestionato dal carisma del
personaggio scrisse una poesia sul gatto della
sorella, la fece vedere a Kemal ed ebbe questa
risposta: «se puoi fare una poesia su quella
sudicia bestiola puoi diventare un grande
poeta». Parole profetiche, come la storia ha
dimostrato. Da allora la poesia e la vita di Hikmet
sono diventate tutt'uno e l'amore, la coscienza,
l'onore, l'eternità sono entrati nei suoi
versi.
- Hikmet era un
giovanotto di buona famiglia, s'è detto, e
curioso. A diciotto anni fuggì
dall'Accademia e dal dorato mondo di Istanbul per
conoscere la sua gente e il suo paese, di cui non
sapeva praticamente nulla, nemmeno la lingua.
All'Accademia, infatti, si scriveva con caratteri
arabi, e la lingua colta che si leggeva sui testi e
si parlava nei salotti era diversa e
incomprensibile per i contadini dell'Anatolia,
quegli uomini stanchi e curvi che Hikmet aveva
talvolta visto da lontano, quando il nonno lo
conduceva a fare un giro in carrozza per le
campagne. Forse il ragazzo si domandava, già
allora, il senso di quelle vite estenuanti, schiena
piegata e mani rotte dalla fatica, e forse gli
sembrava tutto molto ingiusto. Intanto erano
successe un po' di cose. Nazym pascià e la
moglie avevano divorziato: il primo aveva preso a
occuparsi con grande entusiasmo di belle donne, la
seconda era andata a Parigi seguendo i suoi estri
di pittrice. E poi, soprattutto, c'era stata una
drammatica resa dei conti per tutti: la Grande
Guerra, la prima guerra totale e totalmente
distruttiva che aveva cambiato la faccia del mondo
bruciando in quattro anni milioni di vite e gli
appetiti delle potenze europee, le quali,
vincitrici e perdenti, apparivano ormai al di
là di ogni ragionevole dubbio come ex di
fronte al gigante che arrivava dal mare con enorme
dispiego di uomini, mezzi e capitali: gli Stati
Uniti. In quella guerra, iniziata proprio nei
Balcani (la famosa "polveriera d'Europa") quando
neppure le colonie africane e asiatiche erano
più riuscite a contenere la fame di
conquista delle potenze europee, dirottata
prontamente e con cupidigia sui possedimenti
ottomani, erano stati bruciati i fasti della Belle
Epoque, immolati ottimismi e certezze, distrutti
gli equilibri dell'intero continente europeo (che
difatti di lì a breve riprecipiterà
nel conflitto); si erano dissolte le ultime due
reminiscenze del passato: l'impero russo e quello
ottomano, precipitate su se stesse come castelli di
sabbia. Era finito il secolo della fiducia nel
progresso scientifico e civile, nella ragione
individuale e collettiva; erano finiti il can e can
e le frivolezze. Era iniziato un nuovo secolo, e la
sua alba aveva bagliori di sangue.
-
- L'impero
ottomano era uscito dalla Grande Guerra a pezzi,
smembrato e ridotto, per ironia della sorte, alla
sola Anatolia, la terra, abitata dall'etnia turca,
che per secoli era stata considerata come una
specie di colonia dagli ottomani, signori e padroni
di un impero così vasto e ricco da far
apparire quegli altipiani deserti e i suoi rozzi
pastori come una specie di anticamera dell'inferno,
un possedimento di second'ordine, un luogo di
inciviltà irrecuperabile, buono per essere
sfruttato per quel poco che c'era da sfruttare.
Eppure proprio da lì aveva preso le mosse il
movimento dei Giovani Turchi che ora, dopo la
disfatta, non voleva più semplicemente
riformare quel che restava dello stato ottomano: lo
voleva abbattere per fondare uno stato nazionale
turco indipendente e moderno. La guerra, in
Turchia, non era affatto finita, e Hikmet ci si
buttò a capofitto. Fuggito da Istanbul,
attraversò l'Anatolia a piedi per
raggiungere i Giovani Turchi, comandati da
Mustafà Kemal (passato alla storia come
Ataturk, il padre dei Turchi), e unirsi a loro. Non
sapeva bene cosa avrebbe potuto fare, che
contributo dare: in fondo non era altro che un
giovane educato e colto, assai poco avvezzo alle
armi e alle fatiche. Ataturk, però, sapeva
cosa fargli fare: lo mandò, insieme ad altri
giovani intellettuali, in mezzo ai contadini,
perché insegnasse loro a leggere e scrivere.
Fu così che Nazym Hikmet, figlio e nipote di
pascià, aspirante raffinato compositore in
versi, si trovò, di colpo, in mezzo alla
vita. Quella vera, sporca, sudata e affamata del
popolo: «a 18 anni passai in Anatolia, scoprii
il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi
cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in
mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro
l'esercito greco sostenuto da inglesi e francesi.
Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai,
compresi che bisognava scrivere tutto ciò in
un altro modo». Lo scrisse. Sono di quegli
anni le prime poesie civili, che venivano stampate
su fogli nazionalisti e recitate nelle riunioni. La
fama di questo giovane poeta impegnato nella causa
di liberazione crebbe rapidamente, e lo stesso
Ataturk lo salutò come poeta nazionale. Nel
1922 venne pubblicato un poemetto, Anatolia,
scritto ricalcando il ritmo dei canti tramandati
oralmente, di generazione in generazione, dove si
raccontano le pene e le lotte di generazioni
stremate dalla fatica ma pronte alla ribellione;
dove si canta «la spaventosa miseria di
un'umanità fuori dal tempo» che proprio
allora sembrava affacciarsi, per la prima volta,
sulla scena della storia. Tutto sembrava andare in
una direzione precisa: Hikmet sarebbe diventato il
cantore della rivoluzione turca prima, e del
governo di Ataturk poi. Invece tutto andò in
una direzione ben diversa. Ben prima che Ataturk
diventasse il nuovo capo turco, riconosciuto
all'interno e all'estero, Hikmet aveva preso la
strada un'altra volta. Direzione, sempre il popolo.
Ma questa volta era quello russo.
-
- «Era
necessario, a quanto pare, che passassi nell'Unione
Sovietica. Era la fine del 1921. Fui mille volte
più stupito, e sentii un amore e
un'ammirazione cento volte più forti,
perché avevo scoperto, in quel 1921-22, una
carestia cento volte più terribile, e delle
cimici cento volte più feroci, e una lotta
contro tutto un mondo cento volte più
potente, e una immensa speranza, un'immensa gioia
di vivere, di creare. Ho scoperto tutta un'altra
umanità». Quell'inverno la neonata
Unione Sovietica conobbe una delle più
spaventose carestie della sua storia, che arrivava
immediatamente dopo la guerra, la rivoluzione e la
guerra civile. Il popolo russo venne provato al di
là dell'immaginabile, e spronato a resistere
al freddo alla fame alle morti da una parola sola:
avvenire, là dove brillava il sole che Marx
aveva acceso e Lenin faceva balenare agli occhi di
una popolazione affamata ed esausta. Hikmet
andò in Russia senza neppure sapere che
c'era stata la rivoluzione, anche se aveva
già scoperto il comunismo attraverso alcuni
scritti di Marx. Lui voleva andare in Germania,
aveva sentito parlare della Luxembourg e degli
spartachisti e ne era rimasto profondamente
colpito; del resto, Ataturk era dichiaratamente
antisovietico, aveva messo fuori legge il minuscolo
partito comunista turco e fatto uccidere quindici
dirigenti (sono le Quindici ferite cui Hikmet
dedicò un canto); lui stesso si sentiva in
pericolo. Così, clandestinamente (e la
clandestinità doveva diventare la cifra
della sua vita), passò il Mar Nero coi
contrabbandieri, sbarcò sul suolo sovietico
e alla fine arrivò a Mosca. Ben presto
conobbe gli intellettuali della rivoluzione,
Majakovskij e Esenin in testa, e si accese di
passione politica più consapevole e mirata,
scrivendo articoli contro l'arte pura e versi
ispirati a immagini della civiltà
industriale e della tecnica. Quell'appartenenza
ideologica e politica, Hikmet non
l'abbandonerà più. «Sono uno
scrittore impegnato - dichiarò molto
più tardi - credo che ogni scrittore, anche
se molto ermetico, anche se dichiara di non essere
impegnato, non può non essere tale. È
solo una questione di gradi, di coscienza. L'uomo
ama, l'uomo mangia, l'uomo ha fame, l'uomo ha
paura, l'uomo lotta, l'uomo spera; allora, se io
scrivo per le speranze dell'uomo, o per l'amore
dell'uomo, o per la sua fame, o per la sua
nostalgia, scrivo tutto questo da un determinato
punto di vista. E non si può scrivere da un
punto di vista astratto, si scrive sempre da un
punto di vista concreto. Ogni scrittore, dunque,
è impegnato. Io sono marxista, sono
comunista». Per questo non è possibile
parlare della poesia di Hikmet senza parlare della
sua fede politica. Sarebbe mancargli di rispetto,
perché lui non l'ha mai rinnegata, pur
pagandola molto cara.
-
- Cominciò
a pagare nel 1924, quando rientrò in Turchia
e, condannato per la sua attività politica a
quindici anni di carcere, scappò di nuovo a
Mosca, dove terminò gli studi universitari e
continuò l'attività poetica (sempre
rigorosamente in turco, nonostante parlasse ormai
perfettamente il russo) e la frequentazione degli
intellettuali sovietici. Nel 1928 tornò
clandestinamente in Turchia e lì rimase
ventitrè anni, in bilico perenne tra la
clandestinità e la galera. Diciassette di
quei ventitrè li passò in una cella
(ma complessivamente il governo turco riuscì
ad appioppargli cinquantasei anni di prigione) dove
forse sarebbe morto se il suo caso non fosse stato
portato all'attenzione di tutto il mondo da una
campagna mondiale promossa da Tristan Tzara. Pablo
Neruda, divenuto amico di Hikmet, ne raccolse una
testimonianza: «mi ha detto che è stato
costretto a camminare sul ponte di una nave fino a
sentirsi troppo debole per rimanere in piedi,
quindi lo hanno legato in una latrina dove gli
escrementi arrivavano mezzo metro sopra il
pavimento... Il mio fratello poeta ha sentito le
sue forze mancare: i miei aguzzini vogliono vedermi
soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare:
all'inizio la sua voce è bassa, poi sempre
più alta fino a urlare. Ha cantato tutte le
canzoni, tutti i poemi d'amore che riesce a
ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d'amore
dei contadini, gli inni di battaglia della gente
comune. Ha cantato qualsiasi cosa la sua mente
ricordasse. E così ha vinto i suoi
torturatori». Eppure, nonostante i ripetuti
arresti e processi, Hikmet non smise di scrivere -
quello mai, e se gli toglievano carta e penna
elaborava le sue poesie a memoria e le faceva
imparare a chi andava a trovarlo - e riuscì
persino a far pubblicare qualcosa in patria. Le
prime pubblicazioni (835 righe, La Gioconda;
Si-Ya-U; Varan-3; 1+1=1) mostrano fin dal titolo
l'influenza del futurismo russo, e difatti gli
valsero un arresto per propaganda comunista; quella
volta venne liberato quasi subito, ma la
successiva, con la raccolta Un telegramma venuto di
notte, non gli andò altrettanto bene:
condannato a morte, la pena fu in seguito mutata a
cinque anni di carcere poi abbreviati da varie
amnistie. Ma dopo il 1938, e fino al 1950, le porte
del carcere restarono chiuse: per l'uomo, non per
la poesia. Misteriosamente, i versi di Hikmet
sembravano aggirarsi per la Turchia e per l'intera
Europa sospinti dalle ali del vento: ne trovarono
fino in Spagna, nelle tasche dei marinai che
combattevano per la repubblica durante la guerra
civile: e gli valse un'altra condanna. Persino
Ataturk, l'amico di un tempo, il persecutore di
sempre, si faceva leggere i suoi versi e sospirava
«è il più grande poeta turco.
Peccato che sia un avversario politico». Allo
scoppio della seconda guerra mondiale la Turchia si
allineò alla Germania hitleriana, pur senza
entrare in guerra, e le condizioni della prigionia
di Hikmet peggiorarono ancora, con mesi e mesi di
segregazione; peggiorarono tanto da causargli un
infarto. A lui, l'uomo della curiosità e
della scoperta, non davano altro da leggere che la
Bibbia e il Corano; e lui, per tutta risposta,
inventò un dramma satirico con le fonti che
aveva a disposizione: «sono il solo scrittore
marxista - scherzava - che abbia scritto un dramma
di argomento biblico basandosi rigorosamente sulle
sacre scritture». Ma il frutto vero di quegli
anni furono i Paesaggi umani, un poema grandioso,
in più di settantamila versi, in cui,
partendo dalla sua esperienza individuale e con
cerchi concentrici sempre più ampi, giungeva
a descrivere l'intera Turchia e a ipotizzare le
prospettive generali dell'umanità, nel
tentativo di raccontare e raccontarsi in mezzo al
paesaggio degli altri uomini, senza finzioni, senza
nascondersi: «L'uomo è quasi un'erba /
il vento è il santo patrono delle
erbe». Il vento che Hikmet poteva solo
ricordare, chiuso dietro le grate della cella; il
vento che continuava a disperdere i suoi canti per
il mondo (era già tradotto in moltissime
lingue); il vento che vivifica e rende trasparenti
i destini. Buona parte di quel poema è
andato perduto, distrutto dalla polizia
turca.
-
- Allo stremo
delle forze Hikmet iniziò uno sciopero della
fame, nel 1949, per protestare contro le disumane
condizioni carcerarie che pativa sulla carne da
più di dieci anni. Intanto il movimento di
opinione a favore della sua causa diventava sempre
più rumoroso, proteste al governo turco
giungevano dagli intellettuali di tutti i paesi.
Non che le proteste degli intellettuali abbiano mai
avuto un peso politico consistente, ma ci sono
momenti in cui per questioni di immagine e di
diplomazia internazionale un governo sente di dover
salvare la faccia. Così Hikmet venne
scarcerato nel luglio del 1950. Fuori, a casa,
trovò la moglie Munevér, che in turco
vuol dire "la saggia", che lo aspettava,
così come aveva fatto tanti anni. A lei
Hikmet aveva dedicato, dal carcere, poesie di
struggente, estenuante bellezza. Poesia dove la
donna amata riassume in sé ogni cosa, il suo
paese, la sua lotta, la passione per la
libertà e la giustizia, la speranza, la
vita. Pur essendo profondamente sensuali, cariche
di allusioni erotiche, le poesie d'amore di Hikmet
non si risolvono in un delirio morboso dei sensi,
in un'ossessione romantica, in un appannamento del
volere e della ragione in favore dell'esaltazione
dei sentimenti; si realizza in quei versi una
perfetta fusione tra amore e impegno:
«è il punto - ha scritto Joyce Lussu,
la scrittrice italiana cui si devono le traduzioni
dal turco - di un altissimo equilibrio raggiunto:
l'amore è inserito nel contesto della vita e
impegna tutta la sua umanità, la donna
è una donna ma anche un essere umano
completo, un amico e un compagno di lotta oltre che
un'amante, non solo immagine, stimolo o
oggetto». Le poesie d'amore di Hikmet sono
forse le più note; sono quelle che vengono
in mente quando si desidera parlare d'amore, quando
si cercano parole che diano spessore e
profondità all'intensità che vibra,
quando si sente il bisogno di prendere il proprio
amore e farne sentire all'altro tutto il peso, il
calore, la consistenza, la rabbia e il
desiderio.
-
- Ma il tempo che
Hikmet passò a casa, con la sua donna, fu
breve. Perennemente e pesantemente controllato
dalla polizia, con la spada di Damocle di un nuovo
arresto sospesa sulla testa, con una salute ormai
malferma - nonostante avesse ancora l'aspetto di un
leone, alto e robusto, capelli biondo-rossi e occhi
chiari - non poteva rischiare di finire nuovamente
in carcere. Pochi mesi dopo la sua liberazione
prese, da solo e di nascosto, la via dell'esilio.
La moglie e il figlio che doveva nascere non
poterono seguirlo per dieci anni. Di nuovo la
separazione, lacerante, dalla casa, dalla famiglia,
dal paese che amava senza speranza; di nuovo sulla
strada. Strada lunga e cosmopolita, questa volta.
All'inizio Hikmet tornò a Mosca, la sua
seconda patria, dove aveva conosciuto Lenin che era
stato per lui il padre ideale e il rivoluzionario
esemplare. Trovò la città e l'Unione
Sovietica molto diverse; erano gli ultimi anni di
Stalin, il terrore pesava ancora sulle teste di
tutti, il conformismo imposto e accettato era un
abito mentale che si assumeva fin da piccoli, pena
la prigionia o peggio. Hikmet osservò,
valutò, scrisse e descrisse tutto ciò
che vedeva in alcuni lavori teatrali. Uno di questi
terminava, coraggiosamente, con la voce fuori campo
dell'autore: «L'Unione Sovietica è
davvero la mia seconda casa, e io amo molto il suo
popolo. Appunto per questo devo agire come agirebbe
un qualsiasi uomo d'onore. Se vedo che in questa
casa s'è infiltrato un serpente, è
mio dovere schiacciarlo». Poi viaggiò
moltissimo, nell'Europa dell'Est e dell'Ovest;
venne in Italia diverse volte, andò a Cuba
(cui dedicò il poemetto La conga con Fidel);
fu a decine di conferenze stampa, interviste,
congressi e convegni, sempre portando la sua
testimonianza di uomo prima che di uomo di partito.
Durante una delle tante uscite pubbliche, dopo
alcune domande che sentì come provocatorie,
all'improvviso divenne rosso di collera: «Voi
vorreste insegnare la libertà dei vostri
padroni - gridò - a me che l'ho provata nel
corpo e nello spirito? Io sono stato cacciato dalla
mia patria soltanto perché ero reo di amare
la verità e di scriverla nelle mie
poesie». Prese fiato, si fece portare un
bicchier d'acqua e concluse: «Mi piace bere
l'acqua così fredda, tutta d'un fiato
perché è uno dei desideri che ho
patito di più in carcere. Mi dà la
certezza, un bicchiere d'acqua bevuto così,
di essere libero». A proposito di
semplicità e potenza.
-
- Negli ultimi
dieci anni di esilio e di vita Hikmet scrisse
molto, senza darsi troppa pena della perfezione
formale. La poesia era sempre stata, per lui, una
modalità naturale della comunicazione, un
semplice strumento del colloquio tra uomini. La
poesia era sì ricerca individuale, ma si
completava solo nel momento in cui diventava un
mezzo per essere con gli altri e in mezzo agli
altri: ed è forse per questo che le sue
poesie, benché tradotte, "passano" (per
usare un termine molto in voga) immediatamente
dall'autore al lettore. Passano, non trascorrono.
«Penso - diceva - che la poesia debba essere
innanzi tutto utile... utile a tutta
l'umanità, utile a una classe, a un popolo,
a una sola persona. Utile a una causa, utile
all'orecchio... Voglio essere capito e letto dal
maggior numero possibile di persone, ai più
vari livelli di cultura, nei più diversi
stati d'animo, dalle prossime generazioni. Voglio
essere traducibile per i popoli più diversi.
Credo che la forma sia perfetta quando dà la
possibilità di creare il ponte più
solido e comodo tra me, poeta, e il lettore.
Detesto non solo le celle della prigione, ma anche
quelle dell'arte, dove si sta in pochi o da soli.
Sono per la chiarezza senza ombre del sole allo
zenit, che non nasconde nulla del bene e del male.
Se la poesia regge questa gran luce, allora
è vera poesia». Quindi, scriveva, e
continuava a scrivere tanto. Regalava i suoi versi,
non li conservava, alzava le spalle se una
traduzione era malfatta. Si interrogava sulla
morte, che non era più quella eroica che
sarebbe potuta essere, un gesto estremo di coraggio
e fede; no, era una morte anagrafica e fatale,
quella che ti può cogliere così,
banalmente, perché il cuore non regge e il
tempo è finito. Ne scriveva come sapeva fare
lui, con semplicità: «Non ho paura di
morire / ma morire mi secca / è una
questione di amor proprio». L'ultima poesia
scritta da Hikmet si intitola Il mio funerale. Due
giorni dopo, il 3 giugno 1963, uscì dalla
porta del suo appartamento di Mosca per andare a
comperare il giornale. Ma non arrivò mai
all'edicola: il cuore si fermò sulla soglia.
Semplicemente.
-
- Quest'anno, per
il centenario della morte, il governo
restituirà la cittadinanza a Nazym Hikmet.
L'Unesco ha deciso di dedicargli un programma di
iniziative per tutto il 2002, a partire da una
mostra documentaria proprio a Istanbul, nella sua
Turchia.
-
- a cura
di
Olivia
Trioschi
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