- Il nome di
Torquato Tasso è diventato, nell'immaginario
collettivo, sinonimo di varie cose, tutte non
propriamente lusinghiere: tormentato, esaltato,
irrequieto, insomma svitato e molto, molto sfigato.
I suoi vagabondaggi, gli slanci mistici, le
inquietudini religiose, le passioni terrene, la
pazzia, vera o presunta che fosse: tutto ha
contribuito a farne un personaggio proverbiale,
un'icona, un medaglione della storia della
letteratura italiana del tutto privo di contorni e
spessore umani. Il che, ovviamente, non renderebbe
giustizia a nessuno ma tantomeno al Tasso, che
dell'esplorazione delle umane passioni fece la sua
- tormentata, l'abbiamo già detto -
personalissima cifra di poeta ed esperienza d'uomo.
Figlio del suo tempo, emblematicamente nato l'anno
prima del Concilio di Trento, la sua vita e la sua
opera incarnano splendidamente tutto il ferreo
armamentario morale e ideologico, tutta
l'aspirazione all'idealità in stridente
contrasto con il prepotente richiamo delle terrene
vicende, che furono tipici di quella che chiamiamo
età della Controriforma. Da lì, da
quell'età, Tasso ci osserva con i suoi
nerissimi occhi infossati sotto arcate
sopraccigliari ampie e disegnate con cura femminea;
ci osserva senza alcun sorriso, in un chiaroscuro
che scava i lineamenti inseguendo, nei giochi
d'ombra e di luce, la forma del teschio sotto la
pelle sottile, resa ancora più pallida dal
riverbero della candida gorgiera che cinge il
collo, pur senza stringerlo, e isola il volto dal
resto del busto che solo si immagina, confuso
com'è nel buio della composizione. Non
è uno sguardo che si sostenga facilmente.
Forse per quell'aria di muta domanda che gli si
legge negli occhi, forse per il troppo netto
contrasto tra il pallore del viso, il nero profondo
degli occhi e la morbidezza delle labbra, forse per
la rotondità del mento inciso dalla fossetta
centrale, segno scoperto di sensualità
(troppo accesa?). Ci osserva e noi, distanti quasi
mezzo millennio, lo riconosciamo. Ci accorgiamo di
riconoscerlo con un certo spavento, è
innegabile. Cos'ha in comune con noi quest'uomo,
questo poeta di cinque secoli fa, questo cortigiano
deluso, questo cattolico indifeso di fronte alla
prepotenza delle istituzioni e dei dogmi, questo
amante infelice che non rese felice nessuna? Cos'ha
in comune con il nostro terzo millennio orientato,
pragmatico e decisionista, con gli sms - la nuova,
straripante forma di comunicazione amorosa ancora
tutta da indagare, perché ormai non è
più possibile accantonarla con un'alzata di
spalle - con la manifesta contemporanea assenza di
idealità, aspirazioni oltremondane e dilemmi
teologici? La risposta, in realtà, è
meno arzigogolata delle domande. Lo riconosciamo
perché sintetizza in sé, portandola
alle estreme conseguenze, la questione
fondamentale, senza tempo: qual è in noi
l'impronta del divino, e dove è invece il
marchio luciferino? Da dove nascono le umane
passioni, e perché ce ne facciamo
trascinare? Ecco, Torquato Tasso è
esattamente questo. Uno che ha sentito
profondamente questa lacerazione, questa
duplicità della natura umana, e ha cercato
di sanarla con il risultato di rimanerne travolto.
Il frutto di questo compito improbo, però,
è poesia altissima. Che resta nella limitata
eternità che è dato concepire agli
uomini.
-
- Nel 1545
iniziava il Concilio di Trento. L'Europa era
devastata da guerre di religione frutto di opposte
intolleranze tra cattolici e protestanti e l'odio
tra le varie confessioni aveva raggiunto livelli
parossistici che non si sarebbero attenuati ancora
per un secolo. Sembrò allora che il
desiderio di verità e giustizia camminasse a
braccetto con la sete di sangue e vendetta,
sembrò che odi tribali e faide antichissime
tornassero alla luce con abiti nuovi ma identica,
primitiva violenza. Il fumo dei roghi degli
autodafè annebbiava la vista e le coscienze;
i pentimenti e le abiure collettive, le denunce e
le autodenunce, gli esperimenti mistici condotti da
comunità e villaggi interi generavano
morbose esaltazioni di massa che si
autoalimentavano in una sorta di orgia della fede
(delle fedi), di ubriacatura del sentimento
religioso. Da lì sarebbe nata l'Europa
moderna, da lì sono nate riflessioni valide
ancora oggi sulla tolleranza, sul libero arbitrio,
sul sentimento della fede come fatto privato e
individuale, sulla limitazione dell'ingerenza delle
istituzioni nella vita del singolo, sulla
delimitazione delle prerogative delle istituzioni
stesse, politiche e religiose. Da quel bagno di
sangue sono emerse e arrivate fino a noi
verità che non smettono (non dovrebbero
smettere) di informare di sé ogni atto. Come
la celebre frase di Sebastiano Castellione,
all'indomani dell'esecuzione di Michele Serveto,
fatto giustiziare da Calvino: «Uccidere un
uomo non significa difendere un'idea. Significa
solo uccidere un uomo». Ma intanto, pressata
com'era dall'irrompere delle nuove confessioni, cui
si mescolavano naturalmente questioni politiche
internazionali, la Chiesa promuoveva il Concilio di
Trento che lungi dall'accogliere le esperienze e le
aspirazioni dei riformisti cattolici, di cui Erasmo
era stato il più luminoso esempio, ribadiva
e accentuava il carattere centralistico
dell'istituzione ecclesiastica, il potere papale e
l'integralismo delle professioni di fede. La difesa
dell'ortodossia diventava l'imperativo categorico.
Gli strumenti individuati erano spietati quanto i
tempi: i tribunali dell'Inquisizione, che per la
verità esistevano già da due secoli,
e non avrebbero smesso di torturare e uccidere
ancora a lungo; l'Indice dei libri proibiti (da cui
l'espressione ancora in uso «mettere
all'indice» con il significato di proibire,
vietare), incubo di ogni scrittore dell'epoca:
l'inclusione o meno nell'Indice poteva fare tutta
la differenza tra la morte e la vita, non solo
intellettuali (qualche vittima illustre? Bruno,
Campanella, Galilei). La religione, qualsiasi
religione, permeava di sé ogni singolo
aspetto della vita, pretendeva di dominare e
regolare finanche cosa mettere nel piatto, quali
preghiere recitare e con che formule, cosa
scrivere, cosa dire, cosa pensare. Nulla di
più lontano dallo spirito laico che aveva
contraddistinto l'epoca del Rinascimento italiano,
l'epoca di Machiavelli e di Guicciardini, di
Boiardo e di Ariosto, l'epoca del trionfo
dell'antropocentrismo inteso come senso della
libertà e dell'agire umano in una dimensione
terrena e mondana, della saggezza intesa come
dominio delle passioni ed equilibrio, dell'impegno
civile, delle virtù prima comunali e poi
cortigiane. Quell'epoca volgeva al termine percossa
alle radici da furori tribali; la splendida Italia
rinascimentale portatrice di quei valori in tutta
Europa si ripiegava su se stessa e dopo essersi
massacrata in guerre infinite tra i vari stati e
staterelli finiva per diventare in gran parte
provincia della cattolicissima Spagna, la potenza
sui cui territori il sole non tramontava mai. Sullo
sfondo di questa epoca di transizione, di
dissoluzione di valori, epoca storico-letteraria
dai contorni tanto incerti da rendere persino
difficile una definizione univoca (manierismo
è termine su cui ancora si agitano
polemiche), si staglia la figura di Torquato
Tasso.
-
- 11 marzo 1544.
Sorrento si sveglia sotto il primo sole di
primavera, tiepido e luminoso. La baia luccica, il
mare aperto sembra invitare i marinai
all'avventura. Il sole è nella costellazione
dei Pesci. Porzia de' Rossi, di nobile famiglia
oriunda di Pistoia, sposa di Bernardo Tasso,
cortigiano e uomo di lettere, dà alla luce
il suo terzo figlio, Torquato. La prima, Cornelia,
ha già sette anni; il secondo era morto in
fasce due anni prima. La famiglia dipende dal
principe Ferrante Sanseverino, al cui servizio si
trova il padre. L'infanzia di Torquato trascorre
serena nonostante le frequenti assenze del padre
finché, un giorno, la storia del tempo si
intreccia alla sua vicenda individuale. I
napoletani insorgono, non vogliono che nel reame
vengano introdotti i tribunali dell'Inquisizione.
Il principe Sanseverino li appoggia, li difende,
sta dalla loro parte. Tanto basta perché il
vicerè di Napoli, don Pedro de Toledo, lo
dichiari traditore e ribelle. Al principe non resta
che la via dell'esilio, e Bernardo Tasso lo segue
senza la speranza di poter fare ritorno. La
famiglia resta a Salerno, ci sono ancora questioni
patrimoniali da sistemare, soprattutto legate alla
dote di Porzia. Le cose vanno per le lunghe e
Bernardo decide di avvicinare a sé almeno il
figlio. Così, nel 1554, Torquato lascia
Sorrento, la madre e la sorella, e inizia il primo
dei suoi tanti, forse troppi viaggi. Il commiato
è doloroso, e verrà ricordato anni
dopo con parole accorate: «Ohimè! Dal
dì che pria / trassi l'aure vitali e i lumi
apersi / in questa luce a me non mai serena / fui
de l'ingiusta e ria / trastullo e segno, e di sua
man soffersi / piaghe che lunga età risalda
a pena». Si inaugura, ad appena dieci anni, il
tema penoso dell'esilio, che accompagnerà
per tutta l'esistenza di Tasso la ricerca costante
e mai soddisfatta di un «porto», di un
approdo definitivo e sereno; e come corollario il
lamento per un'esistenza infelice, raminga,
iniziata forse sotto foschi auspici nonostante la
luce trasparente che inondava Sorrento l'11 marzo
del 1544. La famiglia non si riunirà
più: Porzia muore di lì a poco, nel
1556, e Torquato rivedrà la sorella in
circostanze drammatiche solo molto, molto tempo
dopo. Padre e figlio soggiornano dapprima a Roma,
ma poi anche da lì devono scappare in
seguito all'invasione del territorio pontificio da
parte del nuovo vicerè; Torquato viene
spedito a Bergamo da certi zii, e solo dopo un anno
può ricongiungersi al padre nella splendida
corte di Urbino, dove compie il suo apprendistato
cortigiano. La corte è destinata a rimanere
una presenza centrale nella tormentata vicenda
autobiografica di Tasso; essa rappresenta ai suoi
occhi, inizialmente, il porto vagheggiato, la meta
sicura e serena, il luogo dove fermarsi e riposare,
coltivando in pace interessi letterari e
partecipando ad amene dispute poetiche tra dotti.
Come si può facilmente intuire, si tratta di
un quadretto del tutto ipotetico e illusorio: le
corti sono a quest'epoca luoghi feroci, le
condizioni economiche e di potere dei vari signori
non sono più tali da consentire lo splendido
mecenatismo di anche solo cinquant'anni prima; le
speranze dell'espansione del mercato librario, meta
che sembrava lì lì per essere
raggiunta nei decenni d'oro della piena rinascenza,
vengono ora frustrate dalle rinnovate censure
ecclesiastiche e laiche, sicchè svaniscono
per gli intellettuali le possibilità di
poter sopravvivere se non prestandosi a veri e
propri rapporti di dipendenza dai signori, i quali
sono molto più interessati ad avere
«segretari» che non
«cortigiani» (oggi forse diremmo
consulenti per l'immagine). La corte, nella quale
Tasso sognava di trovare intellettuali e principi
coi quali instaurare cordiali rapporti umani e
proficui scambi culturali, mostrerà il suo
lato oscuro, quello degli intrighi, della
compiacenza, del compromesso e della
falsità. Ma è ancora presto. Tasso ha
davanti a sé ancora qualche anno da ragazzo.
Il padre, letterato di una qualche fama, si accorge
di quanto precoce sia la vena poetica del giovane:
pertanto lo segue con cura, si preoccupa della sua
erudizione affidandolo a maestri di vaglia e
fornendogli l'opportunità di praticare non
solo gli ambienti di corte ma anche quelli
dell'accademia. A quattordici anni Torquato si
congeda dal duca di Urbino e raggiunge il padre,
che nel frattempo si era trasferito a Venezia per
curare l'edizione del suo poema più noto,
l'Amadigi. Lì il ragazzo comincia a
frequentare l'accademia, a incontrare intellettuali
di rilievo e a confrontarsi con loro. Lì si
configura il secondo totem dell'esistenza di Tasso;
se il primo è rappresentato dalla corte, che
definisce il suo universo sociale ed esistenziale,
il secondo è appunto l'accademia così
come si veniva configurando in quell'epoca: luogo
di codificazione di norme, di produzione di leggi
che regolamentano la creazione artistica in modo
che questa sia conforme agli schemi precisi di una
convenzione. Corte e Accademia sono specchio fedele
di un'epoca orfana di certezze e ottimismi che
proprio per questo cerca nell'Autorità (sia
essa detentrice di potere politico, di ferrea
ortodossia religiosa di prestigio intellettuale) la
confortante e conformista risposta ai troppi e
inquietanti interrogativi posti dalle caotiche,
violente vicende storiche. Corte e Accademia sono
le coordinate entro le quali Tasso cercò di
collocare se stesso, di trovare un senso e una
giustificazione alla propria esistenza; coordinate
troppo asfittiche, però, che avrebbero
finito col far esplodere la profonda vena
libertaria del poeta, quella stessa che si
esplicava nel motivo del viaggio, della fuga,
dell'esilio.
-
- In questi anni
veneti (passati tra Venezia e Padova) Tasso
comincia a scrivere poesie d'amore, dedicate
dapprima a Lucrezia Bendidio, conosciuta ad Abano,
e poi a Laura Peperara, fanciulla incontrata a
Mantova (ed evocata nelle rime mediante il senhal
petrarchesco l'aura). La critica ha poi
rintracciato nel «lirismo» uno dei fili
conduttori di tutta l'opera del poeta (non solo,
quindi, nelle opere propriamente e tecnicamente
«liriche» ma in tutte o quasi le opere
d'invenzione), intendendo con lirismo l'espressione
di elementi soggettivi e personali di sentimenti,
affetti e sensazioni in componimenti solitamente
brevi e con caratteri intrinseci, verbali, di
musicalità. «Esploratore delle
passioni», è stato chiamato:
perché in lui tocca altissimi livelli una
caratteristica dominante di questo periodo, e
cioè la ricerca analitica, quasi ossessiva,
della soggettività, lo scavo psicologico
delle motivazioni di ogni gesto umano, lo studio
dell'interiorità, la chimica delle passioni,
prima tra tutte quella amorosa. Tasso mostra mano
felicissima, che ancora oggi lascia senza fiato,
nel saper cogliere stati d'animo sfumati e
complessi, dove trepidazione, attesa, mestizia,
rimpianto si confondono; dove sensualità
sottile e segreti turbamenti dell'animo si fondono
a paesaggi naturali delicatissimi, tratteggiati con
levità straordinaria. Tra le liriche d'amore
di Tasso giustamente celebre è Qual rugiada
o qual pianto, considerata ancora oggi tra le
più belle di tutta la letteratura italiana:
un notturno soffuso di struggente malinconia per la
partenza dell'amata Laura, il cui volto si confonde
con quello pallido e cristallino delle stelle e
della rugiada che inonda il prato.
- Nello stesso
tempo, e come poteva essere altrimenti?, Tasso si
preoccupa di definire la propria poetica,
partecipando da un lato alle infinite e sovente
sterili dispute sulla questione dei generi che
tanto agitava i letterari dell'epoca e cercando
dall'altro una sistemazione e una giustificazione
alla «folgorante intuizione» di quegli
anni: scrivere il poema eroico del suo tempo,
qualcosa che rispettasse in pieno i canoni
tradizionali del genere ma che al tempo stesso li
rinnovasse rendendoli adeguati alla
sensibilità del secolo. La materia era
già stata scelta, d'impulso: le crociate.
Nei Discorsi dell'arte poetica, pian piano,
elaborò alcune concezioni importanti che
giustificavano su un piano teorico la scelta
istintiva: quella dell'unità dell'azione,
cioè di una struttura verticistica
saldamente costruita e coesa intorno a un'unica
meta (tanto diverso, questo, dall'apertura
assolutamente orizzontale dell'illustre precedente
ariostesco); quella del meraviglioso cristiano, e
cioè dell'intervento divino o demoniaco per
giustificare accadimenti magici o miracolosi,
mettendo al bando i tanti maghi e stregoni pagani
che affollavano le pagine dei precedenti poemi
cavallereschi; quella del verosimile, e cioè
della necessità per il poeta di mescolare
abilmente verità storica con finzione
letteraria, affinché il lettore potesse
dilettarsi ma anche ricevere insegnamenti etici e
morali. Era tempo della Gerusalemme
liberata.
-
- La scelta
d'istinto di Tasso si rivelò vincente: lo
spirito della crociata si era riacceso, alimentato
da un lato dalla vittoria di Lepanto sui Turchi,
che tuttavia non aveva allontanato dall'Europa lo
spettro dell'infedele, e dall'altro dal clima
culturale controriformistico. Gli animi si
riaccendevano al pensiero della Terrasanta, da
più parti si levavano voci perché i
potenti re cristiani dell'Occidente muovessero di
nuovo guerra ai musulmani. Così non fu, ma
il clima era quello, le speranze quelle,
l'entusiasmo quello. E la Gerusalemme liberata era
esattamente quanto il pubblico aspettava. Una
storia romanzata ma non romanzesca, basata su un
fatto storico a cui venivano intrecciati prodigi
assolutamente spiegabili nell'ottica del
meraviglioso cristiano. Il poema, scritto in ottave
secondo il modello del Furioso, comincia con
l'arrivo a Gerusalemme dell'esercito al comando di
Goffredo di Buglione. Goffredo era, anzi, il titolo
scelto inizialmente da Tasso per ribadire il
concetto di unità d'azione attorno a questo
capo carismatico, coraggioso e pio. In
realtà, pur essendo il protagonista,
Goffredo di Buglione non è l'unico
personaggio centrale del poema, la cui unità
è garantita non tanto dalla presenza di un
singolo protagonista quanto dall'essere tutta
orientata, spinta e protesa verso la meta finale,
la liberazione del Santo Sepolcro; il che
conferisce al poema un aspetto finalistico che non
aveva certo l'Orlando furioso (dove prevaleva il
policentrismo, il libero e vano errare, tutto
terreno, dei personaggi) ma che aveva, ad esempio,
la Commedia dantesca. Accanto a Goffredo altri
personaggi restano impressi nella mente del
lettore: Tancredi, eroe fortissimo nelle armi ma
intimamente tormentato, pazzamente innamorata della
guerriera saracena Clorinda, che in punto di morte
si convertirà, e amato da Erminia, audace e
sensibile, che alla fine gli salverà la
vita; Rinaldo, designato a sciogliere le ultime
diaboliche insidie che impediscono la buona
riuscita della crociata ma non prima di essere a
sua volta caduto vittima del fascino della bella
maga pagana Armida; Argante e Solimano, valorosi
guerrieri pagani in cui eroismo e coscienza
dell'ineluttabilità della fine si fondono.
Tutti questi personaggi danno vita a epiche e
corali scene di battaglia e a duelli individuali
per descrivere i quali Tasso dà fondo a
tutta la sua profonda conoscenza dell'arte militare
e cavalleresca, tanto che la Gerusalemme liberata
diventerà una sorta di manuale obbligatorio
per la gestione dei duelli; ma danno vita,
soprattutto, ad amori impossibili e tragici,
conflittuali e colpevoli. L'amore, nel poema di
Tasso come in tutta la produzione lirica, è
un'aspirazione inappagata che si traduce in
infelicità e tormento, riflesso della
sensibilità e dell'indole sentimentale
dell'autore; è un sentimento lacerante che
si riflette sul paesaggio in cui si muovono i
personaggi sicché le albe, i tramonti, i
notturni, lungi dall'avere solo una funzione
scenografica fanno da contrappunto agli stati
d'animo, esaltandoli o placandoli; e gli stessi
stati d'animo vengono indagati con acume e
profondità, da vero conoscitore di ogni
possibile sfumatura degli affetti e delle passioni,
degli scrupoli religiosi e delle debolezze, del
traviamento e delle ansie esistenziali.
«Esploratore delle passioni», s'era
detto. Ogni epoca ha bisogno di un cartografo della
proprio sensibilità, di un attento
disegnatore della morfologia delle passioni
dominanti. L'età della Controriforma aveva
trovato il suo.
-
- Era anche un
tempo sereno. Nel 1565, a vent'anni o poco
più, Tasso si trasferisce a Ferrara ed entra
a servizio del duca Alfonso II come gentiluomo
stipendiato di corte. I primi tempi della vita
ferrarese rappresentano il momento più
felice della vita di Tasso, turbati solo dalla
morte del padre avvenuta nel 1569 e dal fastidio di
un lungo viaggio in Francia tra il 1570 e il 1571:
il ricordo di questo periodo resterà sempre
vivissimo e verrà col tempo idealizzato come
una mitica età dell'oro. Ferrara gli parve
quel porto sereno che andava cercando da quando
aveva lasciato Sorrento; la corte estense quel
luogo di cordialità ed elevata cultura nel
quale un cortigiano poteva dedicarsi alla propria
arte con la necessaria tranquillità. E vi si
dedica, infatti, con fervore e in molteplici
direzioni: continua a scrivere liriche e a
impegnarsi sul fronte delle sistemazioni teoriche;
compone la favola pastorale Aminta (rappresentata
la prima volta nel 1573 in ambiente altamente
bucolico, un'isoletta del Po vicino a Ferrara);
soprattutto, si dedica al poema della sua vita, che
conclude nel 1575. In quei dieci anni passati a
Ferrara Tasso, da ragazzo che era, diventa adulto:
impara, immaginiamo non senza fatiche e
umiliazioni, a ingraziarsi i potenti e a ottenerne
i favori, come quello di sedere alla mensa del Duca
(favore che gli sarà poi negato
successivamente, segno evidente della caduta in
disgrazia) o come la nomina prestigiosa a
storiografo di corte. Ma come mette la parola fine
al suo grandioso poema, e anzi già un po'
prima, questa lucida superficie di tranquillo
fervore intellettuale presenta le prime
incrinature. Il perché non lo sapremo mai:
se cioè Tasso fosse, per dirla
semplicemente, pazzo, come sostennero i positivisti
legando tutti gli accadimenti della sua vita a
patologie di tipo neuropsichiatrico; o se fosse
solo un'anima tormentata e inquieta, insofferente
di tempi così rigorosamente crudeli e
ipocriti come i suoi - ipotesi questa sostenuta dai
poeti romantici, che fecero di Tasso un loro
antesignano, una specie di maudit bello e
tenebroso. Come che sia, l'equilibrio di Tasso
comincia a dare segni di cedimento. La Gerusalemme
liberata, appena conclusa, viene sottoposta a un
estenuante lavoro di revisione legato al subentrare
di mille preoccupazioni estetiche, religiose,
morali. Non sentendosi più sicuro di
sé Tasso nomina alcuni revisori del poema
nella persona di certi letterati romani dai quali
riceve aspre critiche e ai quali ne invia di
altrettanto aspre, finendo con l'entrarvi in
conflitto; non contento, si autodenuncia come
eretico al tribunale dell'Inquisizione di Bologna,
con la speranza di ottenere certezze riguardo alla
conformità del poema ai dettami tridentini.
Viene assolto per ben due volte, ma non gli basta.
Vede pericoli dappertutto, invidie dappertutto,
ostilità dappertutto. Si sente braccato,
spiato, perseguitato dalla malasorte e dagli
uomini. Il tutto si traduce in comportamenti tra il
frenetico, l'aggressivo e l'arrendevole; in momenti
di depressione alternati a brevi euforie; in incubi
notturni e allucinazioni diurne. Forse ascrivibile
a questo secondo tipo è l'episodio cruciale
del 1577: durante un colloquio con la duchessa
Lucrezia, credendosi spiato da un servo
(chissà, forse lo era sul serio) gli si
avventò contro con un coltello. Venne
immediatamente rinchiuso prima nei camerini del
castello estense, che servivano da prigione, poi
nel convento di San Francesco e poi di nuovo nel
castello, da cui fuggì nottetempo un mese
dopo il fattaccio. Come visse e dove
soggiornò in quel periodo è difficile
dire; si sa che qualche tempo dopo si
presentò alla porta della sorella Cornelia,
che non vedeva da vent'anni, a Sorrento,
annunciandole la morte del fratello. Pare volesse
vedere la sua reazione. Nei due anni successivi
girò come una trottola soggiornando ovunque
per brevi periodi finché, dopo averlo
lungamente concordato col Duca, arrivò il
momento del suo ritorno a Ferrara. Ritorno
infelice. Il Duca era alle prese con i preparativi
delle sue terze nozze e non aveva tempo, né
forse aveva molta voglia, di incontrare il suo
antico protetto. Tasso non viene ricevuto, o
comunque non come secondo lui avrebbe dovuto
esserlo; non riesce a rientrare in possesso del
manoscritto del poema, forse il motivo principale
che l'aveva spinto a tornare; a un certo punto non
ne può più. L'11 marzo 1579, giorno
del suo trentacinquesimo compleanno, attacca il
duca con violente invettive (le circostanze sono
oscure: venne provocato? si cercò un
pretesto per allontanarlo dalla corte?). Il giorno
dopo è rinchiuso e incatenato come frenetico
nell'ospedale di Sant'Anna.
-
- Di nuovo, la
storia del tempo si intreccia alla vicenda
individuale. Ferrara e la dinastia estense
attraversavano un momento estremamente delicato. La
madre del duca, Renata di Francia, era stata
allontanata dalla corte per le sue simpatie
calviniste che avevano sollevato non pochi sospetti
e allarmi alla corte papale; il duca Alfonso, senza
figli maschi, doveva stare bene attento a contenere
le mire espansionistiche del papato, che non
avrebbero trovato scusa migliore che quella di
andare a riportare ordine in un territorio
pericolosamente minato dall'eresia. L'autodenuncia
di Tasso faceva tutto il gioco del papato e per
niente quello del Duca, dal momento che il poeta
aveva coinvolto anche alcuni personaggi della corte
estense e, dopo la fuga da Ferrara, si era
accordato con il cardinale Medici per una eventuale
sistemazione a Roma. Insomma ce n'era abbastanza
perché Tasso fosse considerato un
personaggio quanto meno scomodo a Ferrara, da
isolare prontamente e il più a lungo
possibile. Ciò che venne fatto con
particolare durezza: Tasso, trattato più
come un prigioniero che come un pazzo (e dunque
malato), rimase in cella per sette anni mentre il
duca Alfonso alimentava e diffondeva la notizia
della «pazzia» dell'artista che tanti
problemi di politica internazionale avrebbe potuto
creare. Durante la prigionia, che divenne meno dura
solo dopo tre anni, Tasso riprese a scrivere. Fiumi
di lettere: appelli ad amici, denunce di
macchinazioni a suo danno, tentativi di mostrare la
propria recuperata lucidità, richieste
sempre più insistenti di donativi in denaro
e in natura; ma scrisse anche dialoghi poetici e
rime, in momenti di apparente tranquillità.
Intanto la sua fama cresceva. Nel 1580 era stata
pubblicata, senza la sua autorizzazione, una prima
edizione del poema. Il successo vasto, clamoroso e
immediato lo turbò anziché
consolarlo: intanto perché l'opera era da
lui considerata ancora incompiuta, in attesa di
revisione; poi perché non era stato
richiesto il suo consenso né egli riceveva
alcun diritto d'autore. Ma dal chiuso del carcere
non poteva farci nulla, se non scrivere lettere su
lettere di denuncia, esortazione, polemica,
preghiera
-
- Il tormento
della prigionia finì nel 1586 grazie
all'intervento di Vincenzo Gonzaga che lo
portò con sé alla corte di Mantova.
Ma anche lì non rimase a lungo. Ormai
profondamente segnato nel fisico e nella psiche
riprende i suoi viaggi, viene ospitato qua e
là, ormai circonfuso dell'aureola di
più grande poeta del suo tempo ma insieme
considerato personaggio imbarazzante, querulo,
insistente, presuntuoso e lamentoso (è
così: non si è mai all'altezza della
propria fama). Riesce comunque a rivedere e a
pubblicare, questa volta con il suo benestare, la
revisione del poema, cui dà il titolo di
Gerusalemme conquistata. Paradossalmente, di questa
seconda versione non interessa praticamente nulla a
nessuno, posteri inclusi. Si muove tra Napoli e
Roma, viene favorevolmente accolto da papa Clemente
VIII che gli garantisce una rendita vitalizia e gli
promette di incoronarlo con la laurea di poeta in
Campidoglio, onore già concesso al solo
Petrarca. La promessa non venne mantenuta, ma
questa volta Tasso non potè accusare nessuno
di frode e inganno: perché morì lui,
prima: il 25 aprile 1595. Aveva cinquantun anni
compiuti da poco e il suo viaggio terreno si era
concluso. Se poi abbia trovato il porto agognato,
non è dato sapere.
-
Olivia
Trioschi
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