È uscito il n° 115-116
Marzo-Aprile 2002
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 29 marzo 2002
 
Il sommario
 
Tribuna libera
Editoriale
 
Giorgio de Chirico:
l'Uomo e l'Artista nel mondo metafisico
 
In vendita nelle seguenti librerie

Tratto da Ebdòmero, presso l'Autore, 1957, Roma
 
La cena, nel piccolo giardino dell'albergo tutto sparso di sassolini politi, fu ben triste in mezzo a quei due uomini dalle barbe di satiri, che portavano panciotti di tela bianca, spiegazzati e un po' sudici e ciondoli complicati alla catena dell'orologio. Uno di loro diceva che a volte, di notte, si svegliava avendo fame; pertanto aveva preso l'abitudine di far mettere dalla domestica, sul comodino, al momento in cui la sera essa gli preparava il letto, una grande ciotola piena di latte, e, una volta coricato, prima di addormentarsi, afferrava la ciottola, la sollevava come per una libazione e poi la vuotava d'un fiato. L'altro, ancora più bestiale, benchè più anziano, raccontava che durante le notti d'estate, quando la città era quasi deserta (poichè gli abitanti cercavano un rifugio contro la canicola in riva al mare o in campagna) risaliva verso le tre del mattino il viale degli alberi di limone in mezzo a due giovani donne di facili costumi alle quali offriva il braccio.
Mentre ascoltava questi discorsi con orecchio distratto, Ebdòmero inseguiva un ricordo che non riusciva a precisare nella sua memoria. Si ricordava vagamente una camera che non aveva finestre dalla parte del mare; dall'unica apertura esposta al nord, ciò che conferiva all'ambiente una luce da studio di pittore, si scorgeva in lontananza una parte di quella lunga montagna di cui l'altra parte scendeva verso il golfo, e più vicino, apparivano alcuni alberi, specialmente pini. I venti violenti che spesso venivano dal mare li avevano piegati in pose estetizzanti di danzatrici eccentriche; ciò contrastava in quel momento in modo assai curioso con la calma assoluta che regnava nell'atmosfera. Nella chiarezza di quella bella giornata d'autunno, i disgraziati pini sembravano condannati al purgatorio d'un'eterna tempesta; dietro agli alberi, al nord (lato diametralmente opposto al mare) l'orizzonte brillava d'una purezza elvetica. Ebdòmero pensò allora a Basilea, ai ponti sul Reno, che rotola con una violenza di torrente i suoi flutti color smeraldo. Più lontano ancora, montagne eroiche drizzavano le cime incappucciate di neve, tutta brillante al sole. Laggiù si trovavano quelle famose caverne abitate da semidei bellicosi e millantatori fintanto che eran giovani. Più tardi, verso la sera della loro vita, quando s'avvicinava il momento di varcare la soglia per entrare nel regno dolcissimo degli Eterni, diventavano sapienti e poeti e allora, con una disinvoltura da pederasti platonici, insegnavano ai loro nipoti l'arte di preparare le medicine macinando le piante amare e di accordare la lira, enorme e pesante come una piccola cattedrale. Benchè l'autunno avesse spogliato gli alberi secolari, tutto quel vasto orizzonte rimbombava d'eternità.
Davanti ai santuarî, ove sotto le pietre intangibili, finivano di marcire e di arruginirsi le sacre armi d'Eracle, vegliavano guerrieri barbuti dal profilo purissimo e pieno di bellezza virile. Lungo i muri di mattoni, dal lato ove mai giungevano i raggi del sole, s'arrampicava l'edera e verdeggiava il muschio. Era il tempo in cui Valtadòro, il cuoco, tirava fuori dalle casse i tappeti invernali e ne scuoteva la naftalina di cui erano coperti...
Venti di spiagge
Tempi bellissimi
Sere di temporali
Estivi.
Era passata ormai l'estate ardente, l'estate delle cene sulla spiaggia. Ebdòmero ricordava quelle cene a base di triglie putrefatte, che avvelenavano i bagnanti e li facevan torcersi tutta la notte, in preda alle coliche, nelle camere d'albergo, sopra i letti le cui lenzuole eran riscaldate dalla canicola, in un'aria irrespirabile, ove l'odore del linoleum si mescolava a quello delle latrine poco pulite; dalla finestra aperta giungeva a intervalli regolari il rumore delle onde che crollavano sulla rena, laggiù, in qualche parte, nell'oscurità.
Ora bisognava alzarsi e uscire; quest'idea preoccupava da qualche tempo Ebdòmero. I pavoni che trascinavano la loro coda ocellata sotto gli alberi del parco incolto, caratterizzavano assai bene con i loro gridi strazianti la particolare atmosfera di quella facciata di villa fuori moda la cui lunga veranda era rimpinzata di piante e di fiori artificiali. Ora dunque il gran problema era di uscire. Vi sono momenti in cui ciò si può fare senza difficoltà: per esempio durante un ricevimento, quando tutta la gente discorre e gesticola, quando gl'invitati passano da un salone all'altro, interamente occupati a parere intelligenti ed a terminare brillantemente le conversazioni cominciate; allora è facile, è un giuoco da ragazzi sgattajolare tra gl'invitati e filare all'inglese; invece vi sono altri momenti ove tutto questo è assai più difficile; a ciò pensava Ebdòmero, seduto in quella sala intorno alla quale, severe come areopagiti intransigenti, stavano tutte quelle prostitute quinquagenarie, dalle braccia erculee conserte sul petto ipertrofico, nella posa dei campioni di lotta davanti al fotografo. I loro sguardi ostili convergevano su Ebdòmero come i cannoni d'una squadra sul fronte della costa nemica. Ci sarebbe voluto un coraggio di cui nessun essere umano sarebbe stato capace per alzarsi e uscire da quel cerchio infernale e attento. Perciò Ebdòmero preferì restare e finse d'interessarsi a tutti quei quadri e oggetti d'arte, assai mediocri del resto, che egli conosceva a memoria per averli sempre visti. E si lasciava andare alla lusinga d'un'ora ritrovata; crepuscolo, giardini nella foschia della sera, caserma d'artiglieria, terremoto, seismo come dicevano i giornali; tutti gli abitanti del quartiere che passan la notte fuori; alcuni materassi eran stati gettati dalle finestre e poi disposti sulla piazza principale intorno alla statua del grande politico raffigurato con una finanziera indosso e in mano un rotolo di pietra ove l'autore del monumento aveva inciso il suo nome il suo indirizzo e la data in cui fu eseguita l'opera. Altri sostenevano che si aspettava una cometa e con quella, la fine del mondo, come del resto precidevano i libri d'astrologia. Giovinezza di serenate ai piedi delle necropoli, così bianche al chiaro di luna e poi quelle notti veramente straordinarie, quando cascate di fiori scendevano e offerte infinite sorgevano sulle rive solitarie d'un mare ogni onda del quale rotolava rose e ancora rose senza fine; e tutto ciò per ritrovarsi ora con tanti altri pazienti in quell'immensa casa di vetro, intento a seguire un ideale fuggitivo. Forse per questo Ebdòmero passava allora notti intere seduto sul letto, con la faccia nelle mani, mentre sul comodino, tra la pipa e la borsa del tabacco, la candela deformata dallo scolare della cera, finiva di consumarsi? Ma in simili momenti accadeva a volte che il muro in fondo alla camera si aprisse, come il sipario d'un teatro, e dietro vi apparissero spettacoli ora spaventosi, ora sublimi o incantevoli; era l'oceano in tempesta, con dei gnomi schifosi che smorfieggiavano e gesticolavano ostilmente sulla cresta schiumosa delle onde; e a volte si vedeva invece un paesaggio primaverile, d'una poesia e d'una tranquillità stupefacenti: poggi verdeggianti e teneri inquadravano un sentiero ombreggiato dai mandorli in fiore; su questo sentiero una donna giovane e bellissima, tutta di bianco vestita e dal volto pensoso e grave, camminava lentamente.
"Ma tutto ciò è nulla", diceva Ebdòmero, se si pensa a quello che era questa città durante le notti d'estate. Partenagogeo, pedagogeo, efebogogeo; questa costruzione, piuttosto bassa e ben proporzionata, aveva l'aspetto d'un enorme giocattolo che dopo parecchie prove si fosse messo al suo posto definitivo...
 
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Diffidente com'era sempre, mise lentamente una mano nella tasca dei calzoni, l'altra libera, pronta a parare il colpo. Frotte taciturne di opliti gli passavano accanto con un che di chiuso e d'ostinato nell'aspetto. Razzi salivano nel cielo, ma senza rumore; ogni rumore era morto. Tutto ciò che vi era di duro nel mondo: le pietre della terra; le ossa degli uomini e degli animali, sembrava per sempre sparito; una grande onda, grassa e irresistibile, d'un'infinita tenerezza, aveva sommerso ogni cosa e in mezzo a questo novello Oceano la nave di Ebdòmero galleggiava immobile, con tutte le vele pendenti. Ma allora, lentamente, in modo enigmatico, una nuova e strana fiducia cominciò a rinascere nel suo animo. Da principio ebbe paura; tremò anche, come trema a notte alta il vegliardo paralitico nella sua poltrona, durante una notte di temporale, solo nel castello, vedendo la maniglia della porta girare lentamente, mossa fuori da una mano misteriosa. Poi, d'un tratto, spazzati da un soffio irresistibile, la paura, l'angoscia, il dubbio, la nostalgia, la scontentezza, gli allarmi, le disperazioni, le stanchezze, le incertezze, le vigliaccherie, le debolezze, i disgusti, la diffidenza, l'odio, la collera, tutto, tutto sparì in un turbine formidabile, laggiù, dietro quei muriccioli di mattonelle semirovinati, intorno ai quali i rovi e le ortiche si attaccavano come una malattia tenace. Flutti dalla glauca profondità e la cui superficie era tutta trinata di schiuma, irruppero a rovescio e branchi immensi di cavalle selvatiche, dagli zoccoli duri come l'acciaio, sparirono in un galoppare frenetico, in una valanga di groppe che si sfregavano, si urtavano, si spingevano, si premevano, si schiacciavano all'infinito...
E ancora una volta fu il deserto e la notte. Di nuovo tutto dormiva nell'immobilità e nel silenzio. D'un tratto Ebdòmero riconobbe gli occhi di suo padre negli occhi di quella donna; e allora capì. Essa parlò d'immortalità, nella grande notte senza stelle.
..."O Ebdòmero - disse -, io sono l'Immortalità. I sostantivi hanno il loro genere o, meglio, il loro sesso, come tu dicesti una volta con molta finezza e i verbi, ahimè, hanno i loro tempi. Hai tu mai pensato alla mia morte? Hai tu mai pensato alla morte della mia morte? Hai tu mai pensato alla mia vita? Un giorno, o fratello...".
Ma non parlò più oltre. Seduta presso Ebdòmero, sopra un frammento di colonna, gli poggiò dolcemente una mano sulla spalla e con la destra strinse la destra dell'Eroe...
Ebdòmero, con un gomito sulla rovina e il mento nella mano, non pensava più... Il pensiero suo, all'aura dolcissima della voce che aveva udito, cedette lentamente e finì con l'abbandonarsi del tutto. S'abbandonò all'onde carezzevoli della voce indimenticabile e su quell'onde partì verso ignote e strane plaghe...; partì in un tepore di sole occiduo, ridente alle cerulee solitudini...
Intanto, tra il cielo e la vasta distesa dei mari, isole verdi, isole meravigliose passavano lentamente, come passano le unità di una squadra davanti alla nave ammiraglia mentre, su in alto, lunghe teorie di uccelli sublimi, d'un candore immacolato volavano cantando...
 
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Tratto da Memorie della mia vita, Rizzoli, 1962
 
La mostra della pittura metafisica, allestita alla Biennale nel 1948 aveva uno scopo solo: Giorgio de Chirico, però uno scopo assolutamente negativo nei miei riguardi. Si trattava anzitutto di attirare più che mai l'attenzione del pubblico italiano, ed anche degli stranieri, sopra un solo genere della mia arte in modo che così la gente non potesse interessarsi troppo ad un'altra parte della mia produzione, quella che creo e perfeziono da più di quarant'anni e di cui le numerose opere, appunto per il loro inconfondibile aspetto di qualità e di maestria, piacciono molto, piacciono moltissimo, in fondo piacciono a tutti, in contrasto con le pitture moderniste che non piacciono a nessuno. Inoltre gli organizzatori della Biennale del 1948 che avevano scritto idealmente sui gloriosi stendardi delle loro legioni "la libertà in arte", sapevano che esporre quelle mie opere piene di qualità plastiche e di maestria avrebbe costituito un pericolosissimo paragone riguardo alle scemenze, alle brutture ed alle asinerie che i componenti la Commissione della Biennale, rinata nel 1948, sostenevano, difendevano e propagandavano con uno zelo e un ardore veramente ammirevoli. La fregatura nei miei riguardi avrebbe dovuto consistere nel dar fiato, con isterico vigore, alle trombe lunghe della pubblicità, per clamare e proclamare la metafisica, cioè limitare al massimo la potenza creativa d'un pittore del mio calibro, limitarla a alcune decine di quadri fatti, secondo loro, in un momento di folle ispirazione; i surrealisti parlavano anche di allucinazioni e che, in seguito, sarei precipitato allo stato di cadavere vivente, sarei diventato un individuo il quale, secondo quanto dice una galleria di Milano, "ha perso il nervo". Ma il fatto più inaudito dell'allestimento della Mostra della Metafisica alla Biennale del 1948 fu di aver battezzato metafisici altri due pittori, Carrà e Morandi, ed aver messo i loro quadri insieme ai miei. Commissario speciale per questa strana mostra della metafisica era stato nominato il professor Roberto Longhi. Il professor Longhi da circa quarant'anni si è specializzato nell'arte di essere sempre pronto quando si tratta di qualcosa di negativo nei miei riguardi. Infatti più di quarant'anni or sono egli, come già dissi, in occasione di una mia mostra di quadri metafisici, scrisse su quella mostra un articolo sghignazzante e stroncatorio che portava il titolo: Al dio ortopedico, e più di quarant'anni dopo si prodigò a Venezia per un allestimento della Mostra della Metafisica poiché anche lì sentì odore di antidechirichismo. Altro fatto notevole di questa oscena manifestazione fu che la benemerita commissione della Biennale, dopo aver consacrato i metafisici Carrà e Morandi, stabilì un premio di alcune centinaia di migliaia di lire per il miglior metafisico. Ora tutti sanno che Carrà ha plagiato in malo modo alcuni miei quadri metafisici che egli mi vide dipingere a Ferrara in un ospedale militare durante la prima guerra mondiale. In quanto a Morandi non è mai stato metafisico. Il colmo poi fu che il premio della metafisica fu dato all'unanimità, ma probabilmente per l'insistenza dei modernistologi professori Roberto Longhi e Lionello Venturi, al loro benamato Morandi. Ora tu, caro lettore, se ti vuoi rendere ben conto della mentalità e della moralità vigenti oggi in certi ambienti dell'arte moderna e della moderna cultura pensa a questo fatto: in una mostra ufficiale, organizzata in Italia con i denari dei contribuenti italiani, si mettono i quadri di un notissimo pittore italiano senza invitarlo e senza nemmeno avvisarlo, andando contro lo stesso regolamento di tale mostra ufficiale, andando contro ad ogni regola di buon costume e di ogni morale consuetudine. Questo notissimo pittore italiano che ha creato uno stile, o genere che dir si voglia, di pittura, stile o genere che appartiene a lui e soltanto a lui, viene esposto insieme ad opere di altri pittori, arbitrariamente e tendenzialmente consacrati metafisici e di cui l'uno, come ho detto, non ha fatto che plagiare e l'altro c'entra con la metafisica come i cavoli c'entrano a merenda. Poi per colmo si istituisce persino un premio in denari e tale premio si conferisce proprio a colui di cui i quadri c'entrano con la metafisica come i cavoli a merenda. Pensaci bene caro lettore e vedrai che più scorretti e impudenti di così si muore. Il colmo dei colmi fu poi che nel gruppo dei quadri metafisici a me attribuiti c'era anche un formidabile falso; un falso che per non vedere che era falso bisognava avere sugli occhi non fette di prosciutto, ma lastre di cemento armato. Eppure tanto il professor Roberto Longhi quanto l'illustre modernistologo, astrattomane e francorasta, voglio dire l'illustre professore Lionello Venturi, implacabile propugnatore della "libertà in arte" e strenuo difensore di ogni crosta e di ogni asineria che porti il marchio della decrepita e sgangherata scuola di Parigi, tanto, dico, il professor Longhi quanto il professor Venturi non si accorsero durante cinque mesi che durò la mostra che in mezzo alle opere dell'odiato de Chirico, lo Sciricò dei francesi, avevano esposto anche un formidabile falso con la sua firma contraffatta. Questo falso proveniva da una collezione di Milano ed era stato portato da Parigi ove pare appartenesse al poeta surrealista Paul Eluard, quello stesso dal naso storto e dalla faccia mistica che preferisco non definire. Durante cinque mesi che durò la Biennale del 1948, nessuno di quei luminari della pittura moderna che componevano la benemerita commissione si accorse che tra gli autentici de Chirico c'era anche un indecente falso. Come competenza non c'è male! I componenti la commissione sapevano però benissimo che, non solo in Italia, ma in tutto il mondo circolavano forti quantitativi di quadri a me falsamente attribuiti e con la mia firma contraffatta, quindi, il più elementare senso di correttezza, e soprattutto di prudenza, avrebbe dovuto suggerire loro di mostrarmi, prima della mostra, almeno le fotografie di quei quadri che loro arbitrariamente, tendenziosamente, contro ogni regolamento ed ogni senso di vivere civile, di correttezza e di moralità, avevano deciso di esporre.
Probabilmente i componenti la benemerita commissione si sentivano protetti dall'atteggiamento ostile nei miei riguardi dimostrato da tutti i modernisti d'Italia e di fuori, ed anche si sentivano difesi da quelle leggende false e maligne, create sul mio conto, come la leggenda che io ho "ripudiato la pittura metafisica" e che io dichiaro falsi tutti i quadri metafisici che mi vengono mostrati. Una volta pubblicai su giornali italiani e stranieri che scommettevo dieci milioni di lire contro dieci lire con chiunque credesse di potermi dare prove irrefutabili che io avevo ripudiato la pittura metafisica. Nessuno rispose; nessuno ardì accettare la scommessa; eppure il rischio consisteva a perdere solo dieci lire! Tutto questo prova quale è oggi, in certi ambienti, la malafede, la mancanza della benché minima correttezza e del benché minimo coraggio.
Intentai una causa alla Biennale, ma, un po' perché l'avvocato che difendeva i miei interessi non se ne occupò con molto zelo, un po' per i poco chiari regolamenti e le scappatoie che in questi casi si possono sempre trovare, il Tribunale, in prima istanza, diede ragione alla Biennale.
Io decisi di ricorrere in Appello ed intanto in articoli e conferenze smascheravo sistematicamente le malefatte ed il malcostume della Biennale di Venezia. In Appello gli avvocati delle due parti si accordarono per un compromesso, probabilmente perché la Biennale intuì che alla fine avrei avuto ragione io. Però anche questa volta quando si seppe il risultato della prima istanza la stampa italiana nobilmente esultò.
Nel 1949 una associazione artistica inglese, la Royal Society of British Artists, mi elesse socio onorario e mi invitò a fare una mostra di cento pitture nelle sale della sua sede. Io accettai e qualche mese dopo inviai cento mie opere a Londra. La mostra durò un mese ed ottenne molto successo, da ogni punto di vista.
All'inaugurazione il presidente della Royal Society, il pittore Copley, offrì un banchetto in mio onore nella sala dei concerti della società. Durante la mostra furono vendute diverse mie opere ed una fu acquistata da un noto critico di nome Newton, che faceva la cronaca di arte sul Sunday Times. Era la prima volta che un critico mi acquistava un quadro. In quell'occasione, mentre i miei quadri trionfavano a Londra, una rivista settimanale italiana di Roma, di cui non ricordo bene il nome, ma credo si chiamasse L'Elefante, pubblicò un livido articolo in cui diceva che agli inglesi non piaceva la mia pittura "lumacosa". Per soprammercato, insieme all'articolo velenoso, L'Elefante pubblicò una fotografia ove si vedeva di schiena me, solo soletto in un angolo della mostra; ora tu devi sapere, caro lettore, che alla mia mostra c'era un continuo affluire di visitatori, benché si pagasse un'entrata; ma l'autore del livido articolo fece fare apposta quella fotografia maligna e tendenziosa, scattata probabilmente pochi minuti prima della chiusura serale, dopo che l'ultimo visitatore era uscito, per far credere ai lettori italiani che alla mia mostra non veniva nessuno. Ecco ancora un tipico esempio del livore che suscitano in Italia l'alta qualità delle mie opere e la mia eccezionale personalità; ciò è anche un esempio della mancanza, in Italia, di ogni dignità e d'ogni amor proprio nazionale, specie in quegli ambienti di scribacchino e pseudo-intellettuali, pronti sempre a sminuire il lavoro ed il successo di un italiano ed altrettanto pronti a pulire le scarpe ad ogni straniero, per schiappino che sia, soprattutto se si tratta di un francese. Mentalità da vecchie zitelle e da teppistoidi. Inoltre in quell'occasione, su tutta la stampa italiana, ci fu un silenzio solenne riguardo i miei successi di Londra.
A venezia in quel tempo c'era un mio amico, un antiquario che si chiamava Giorgio Zamberlan. Egli si occupava commercialmente anche di pittura moderna; aveva molta simpatia per me, simpatia che io ricambiavo, e molta ammirazione per la mia pittura. Egli ebbe l'idea di organizzare a Venezia, durante la stagione estiva, importanti mostre delle mie opere. La prima di queste mostre fu allestita in una sala al pianterreno di Ca' Giustinian. Per potere esporre in quella sala ci voleva il permesso del Comune. In quel tempo era sindaco di Venezia un signore comunista, di nome Gianquinto. Di solito i comunisti, così come i democristiani, sono in linea di massima ostili a me poiché essi sono quasi tutti dei filomodernisti e non sopportano che io, con il verbo e con la penna, e soprattutto con l'eccezionale qualità della mia pittura, rimuova le basi dei loro idoli dai piedi di argilla. In Russia le modernisticherie sono messe in sordina ma i dirigenti di Mosca, per i Paesi fuori della Russia, per i Paesi democratici non fanno nulla per ostacolare il continuo abbassarsi ed il continuo disgregarsi di ogni forma d'arte. Essi pensano, e probabilmente con ragione, che questa enorme mistificazione che è la cosiddetta arte moderna, così come l'aumento dell'omosessualità, dell'uso di stupefacenti, della dilagante delinquenza minorile e non minorile, della eccessiva libertà di stampa e di tante altre squisitezze del nostro tempo, contribuiscano a rendere sempre più debole e sempre meno compatta la serietà dei Paesi occidentali. Però io non credo che tra quelli che oggi in Russia si occupano di arte e di cultura, questo rinnegare il modernismo in arte sia un sentimento molto sincero. Io credo anzi che molti di loro pensino con grande tenerezza a Parigi e a Picasso, a Matisse...
 
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Giunsi a Parigi; era l'autunno del 1925. Ferveva, nella capitale francese, il grande baccanale della pittura moderna. I mercanti di quadri avevano istituito una vera e propria dittatura. Erano loro che, con i loro prezzolati critici d'arte, creavano o distruggevano un pittore e ciò indipendentemente dal suo valore di artista. Così un mercante, o un gruppo di mercanti, potevano benissimo valorizzare i quadri di un pittore completamente sprovvisto del benché minimo ingegno, rendere il suo nome celebre in tutti i continenti e potevano altresì boicottare, soffocare e ridurre alla miseria un artista di gran valore; essi facevano tutto ciò approfittando della confusione che regnava e purtroppo regna più che mai in fatto di arte, e sfruttavano ignobilmente lo snobismo e l'imbecillità d'una certa categoria di persone. La loro clientela era soprattutto costituita da anglosassoni, affetti da snobite acuta, e specialmente da nordamericani; poi avevano come clienti anche alcuni scandinavi, alcuni tedeschi, parecchi svizzeri, qualche belga e qualche giapponese; i clienti francesi erano in numero assai limitato ed in numero ancora più limitato erano i clienti spagnoli ed italiani; quelli italiani poi erano quelli che, bisogna dirlo a nostro vanto ed onore, meno di tutti abboccavano all'amo. Tra i mercanti e quelli che stavano loro attorno esisteva una vera e propria massoneria, con i suoi riti, le sue leggi ed i suoi sistemi che funzionavano a meraviglia. Un famoso trucco era quello della falsa vendita all'asta, all'hôtel Drouot. Un mercante, ad esempio, voleva far credere che i quadri d'un certo pittore, da lui sostenuto, costassero carissimo; egli metteva uno di questi quadri ad un'asta all'hôtel Drouot; il quadro in questione di solito apparteneva ad un collezionista che era d'accordo con il mercante; lo stesso mercante poi inviava il giorno dell'asta alcuni uomini di fiducia che facevan salire il prezzo del quadro e, naturalmente, sacrificava una certa somma per pagare le percentuali alla casa di vendita; così il quadro figurava come venduto ad un prezzo altissimo, mentre invece non era stato venduto a nessun prezzo. Poi veniva messo a giacere per un certo tempo nel retrobottega del mercante o nelle cantine del collezionista. Lussuose riviste erano prezzolate apposta per sostenere una data pittura o un dato genere di pittura ed in tutta questa oscena baraonda si parlava di tutto fuorché della qualità d'un opera e fuorché del valore artistico di un quadro. Mai, da che il mondo esiste, e da che gli uomini si affannano a disegnare, a dipingere, a plasmare ed a scolpire, mai, dico, i più alti valori dello Spirito e le più alte aspirazioni dell'uomo, che sono l'arte e le opere d'arte, sono state a un tal punto ed in modo così bestiale prostituite e trascinate nel fango. Due delle più grandi vergogne del nostro tempo sono: l'incoraggiamento al male che si fa in fatto di arte ed al quale incoraggiamento non si oppone nessuna autorità, né civile, né ecclesiastica e la speculazione che si basa sull'inganno, si può dire anche addirittura sulla truffa, ed approfitta dell'ignoranza, della vanità e della stupidità degli uomini di oggi. Tutto questo aveva ed ha un solo ed unico scopo, una sola meta: il denaro. Guadagnare ad ogni costo, guadagnare in ogni modo, sotto l'egida d'un falso ideale artistico. Io accuso apertamente e coraggiosamente tutta l'ignobile genia che ha contribuito e contribuisce a far decadere la pittura al punto al quale è oggi decaduta. L'accuso per oggi e per domani ed assumo pienamente tutta la responsabilità di tale accusa. Sono sicuro che gli sforzi che io faccio e che forse anche qualche altro fa, per riportare la pittura sopra un piano di nobiltà e di dignità, non saranno vani; non sono un teorico, o uno che faccia discorsi a vuoto; se parlo così è perché ho studiato ed esaminato a fondo il problema. Anche altri hanno parlato e scritto sulla decadenza della pittura moderna, ma si tratta di gente che capisce fino ad un certo punto e non ha saputo mettere il dito sulla piaga, così come ho saputo farlo io; poi per aver veramente il diritto di parlare in tal modo bisogna anzitutto essere un pittore di grande levatura e bisogna aver potuto dipingere i quadri che io solo sono riuscito a dipingere in questa prima metà del nostro secolo. L'attuale modo di occuparsai dell'arte, il modo di occuparsene da scemi, da ladri e da ruffiani, è poi dilagato in tutto il mondo, ma l'origine e la centrale sono state a Parigi.
Ora che ho scritto senza peli sulla penna, così come lo dico senza peli sulla lingua, ciò che penso della pittura moderna e di quelli che l'hanno sostenuta e divulgata e di quelli che lo fanno tuttora, riprendo il filo dei miei ricordi, delle mie osservazioni, delle mie riflessioni e delle mie avventure personali.
Poco dopo esser giunto a Parigi trovai una forte opposizione da parte di quel gruppo di degenerati, di teppistoidi, di figli di papà, di sfaccendati, di onanisti e di abulici che pomposamente si erano autobattezzati surrealisti e parlavano anche di "rivoluzione surrealista" e di "movimento surrealista". Questo gruppo di individui poco raccomandabili era capeggiato da un sedicente poeta che rispondeva al nome di André Breton ed il quale aveva come aiutante di campo un altro pseudo-poeta di nome Paul Eluard, che era un giovanottone scialbo e banale, con il naso storto e una faccia tra di onanista e di cretino mistico. André Breton, poi, era il tipo classico del somaro pretenzioso e dell'imponente arrivista. Il signor André Breton, insieme ad alcuni "surrealisti", aveva acquistato, dopo l'altra guerra, ad una vendita all'asta e per pochi soldi, un certo numero di quadri miei che io avevo lasciato in un piccolo studio di Montparnasse quando nel 1915 partii da Parigi per venire in Italia. Il proprietario dello studio, per rifarsi delle pigioni che non ero riuscito a pagare durante il periodo della guerra, aveva venduto i miei quadri insieme ad un po' di mobilio...
Giorgio de Chirico

 
 
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