- Tratto
da Ebdòmero, presso l'Autore, 1957,
Roma
-
- La cena, nel
piccolo giardino dell'albergo tutto sparso di
sassolini politi, fu ben triste in mezzo a quei due
uomini dalle barbe di satiri, che portavano panciotti
di tela bianca, spiegazzati e un po' sudici e ciondoli
complicati alla catena dell'orologio. Uno di loro
diceva che a volte, di notte, si svegliava avendo
fame; pertanto aveva preso l'abitudine di far mettere
dalla domestica, sul comodino, al momento in cui la
sera essa gli preparava il letto, una grande ciotola
piena di latte, e, una volta coricato, prima di
addormentarsi, afferrava la ciottola, la sollevava
come per una libazione e poi la vuotava d'un fiato.
L'altro, ancora più bestiale, benchè
più anziano, raccontava che durante le notti
d'estate, quando la città era quasi deserta
(poichè gli abitanti cercavano un rifugio
contro la canicola in riva al mare o in campagna)
risaliva verso le tre del mattino il viale degli
alberi di limone in mezzo a due giovani donne di
facili costumi alle quali offriva il
braccio.
- Mentre ascoltava
questi discorsi con orecchio distratto,
Ebdòmero inseguiva un ricordo che non riusciva
a precisare nella sua memoria. Si ricordava vagamente
una camera che non aveva finestre dalla parte del
mare; dall'unica apertura esposta al nord, ciò
che conferiva all'ambiente una luce da studio di
pittore, si scorgeva in lontananza una parte di quella
lunga montagna di cui l'altra parte scendeva verso il
golfo, e più vicino, apparivano alcuni alberi,
specialmente pini. I venti violenti che spesso
venivano dal mare li avevano piegati in pose
estetizzanti di danzatrici eccentriche; ciò
contrastava in quel momento in modo assai curioso con
la calma assoluta che regnava nell'atmosfera. Nella
chiarezza di quella bella giornata d'autunno, i
disgraziati pini sembravano condannati al purgatorio
d'un'eterna tempesta; dietro agli alberi, al nord
(lato diametralmente opposto al mare) l'orizzonte
brillava d'una purezza elvetica. Ebdòmero
pensò allora a Basilea, ai ponti sul Reno, che
rotola con una violenza di torrente i suoi flutti
color smeraldo. Più lontano ancora, montagne
eroiche drizzavano le cime incappucciate di neve,
tutta brillante al sole. Laggiù si trovavano
quelle famose caverne abitate da semidei bellicosi e
millantatori fintanto che eran giovani. Più
tardi, verso la sera della loro vita, quando
s'avvicinava il momento di varcare la soglia per
entrare nel regno dolcissimo degli Eterni, diventavano
sapienti e poeti e allora, con una disinvoltura da
pederasti platonici, insegnavano ai loro nipoti l'arte
di preparare le medicine macinando le piante amare e
di accordare la lira, enorme e pesante come una
piccola cattedrale. Benchè l'autunno avesse
spogliato gli alberi secolari, tutto quel vasto
orizzonte rimbombava d'eternità.
- Davanti ai
santuarî, ove sotto le pietre intangibili,
finivano di marcire e di arruginirsi le sacre armi
d'Eracle, vegliavano guerrieri barbuti dal profilo
purissimo e pieno di bellezza virile. Lungo i muri di
mattoni, dal lato ove mai giungevano i raggi del sole,
s'arrampicava l'edera e verdeggiava il muschio. Era il
tempo in cui Valtadòro, il cuoco, tirava fuori
dalle casse i tappeti invernali e ne scuoteva la
naftalina di cui erano coperti...
- Venti di
spiagge
- Tempi
bellissimi
- Sere di
temporali
- Estivi.
- Era passata ormai
l'estate ardente, l'estate delle cene sulla spiaggia.
Ebdòmero ricordava quelle cene a base di
triglie putrefatte, che avvelenavano i bagnanti e li
facevan torcersi tutta la notte, in preda alle
coliche, nelle camere d'albergo, sopra i letti le cui
lenzuole eran riscaldate dalla canicola, in un'aria
irrespirabile, ove l'odore del linoleum si mescolava a
quello delle latrine poco pulite; dalla finestra
aperta giungeva a intervalli regolari il rumore delle
onde che crollavano sulla rena, laggiù, in
qualche parte, nell'oscurità.
- Ora bisognava
alzarsi e uscire; quest'idea preoccupava da qualche
tempo Ebdòmero. I pavoni che trascinavano la
loro coda ocellata sotto gli alberi del parco incolto,
caratterizzavano assai bene con i loro gridi
strazianti la particolare atmosfera di quella facciata
di villa fuori moda la cui lunga veranda era
rimpinzata di piante e di fiori artificiali. Ora
dunque il gran problema era di uscire. Vi sono momenti
in cui ciò si può fare senza
difficoltà: per esempio durante un ricevimento,
quando tutta la gente discorre e gesticola, quando
gl'invitati passano da un salone all'altro,
interamente occupati a parere intelligenti ed a
terminare brillantemente le conversazioni cominciate;
allora è facile, è un giuoco da ragazzi
sgattajolare tra gl'invitati e filare all'inglese;
invece vi sono altri momenti ove tutto questo è
assai più difficile; a ciò pensava
Ebdòmero, seduto in quella sala intorno alla
quale, severe come areopagiti intransigenti, stavano
tutte quelle prostitute quinquagenarie, dalle braccia
erculee conserte sul petto ipertrofico, nella posa dei
campioni di lotta davanti al fotografo. I loro sguardi
ostili convergevano su Ebdòmero come i cannoni
d'una squadra sul fronte della costa nemica. Ci
sarebbe voluto un coraggio di cui nessun essere umano
sarebbe stato capace per alzarsi e uscire da quel
cerchio infernale e attento. Perciò
Ebdòmero preferì restare e finse
d'interessarsi a tutti quei quadri e oggetti d'arte,
assai mediocri del resto, che egli conosceva a memoria
per averli sempre visti. E si lasciava andare alla
lusinga d'un'ora ritrovata; crepuscolo, giardini nella
foschia della sera, caserma d'artiglieria, terremoto,
seismo come dicevano i giornali; tutti gli abitanti
del quartiere che passan la notte fuori; alcuni
materassi eran stati gettati dalle finestre e poi
disposti sulla piazza principale intorno alla statua
del grande politico raffigurato con una finanziera
indosso e in mano un rotolo di pietra ove l'autore del
monumento aveva inciso il suo nome il suo indirizzo e
la data in cui fu eseguita l'opera. Altri sostenevano
che si aspettava una cometa e con quella, la fine del
mondo, come del resto precidevano i libri
d'astrologia. Giovinezza di serenate ai piedi delle
necropoli, così bianche al chiaro di luna e poi
quelle notti veramente straordinarie, quando cascate
di fiori scendevano e offerte infinite sorgevano sulle
rive solitarie d'un mare ogni onda del quale rotolava
rose e ancora rose senza fine; e tutto ciò per
ritrovarsi ora con tanti altri pazienti in
quell'immensa casa di vetro, intento a seguire un
ideale fuggitivo. Forse per questo Ebdòmero
passava allora notti intere seduto sul letto, con la
faccia nelle mani, mentre sul comodino, tra la pipa e
la borsa del tabacco, la candela deformata dallo
scolare della cera, finiva di consumarsi? Ma in simili
momenti accadeva a volte che il muro in fondo alla
camera si aprisse, come il sipario d'un teatro, e
dietro vi apparissero spettacoli ora spaventosi, ora
sublimi o incantevoli; era l'oceano in tempesta, con
dei gnomi schifosi che smorfieggiavano e gesticolavano
ostilmente sulla cresta schiumosa delle onde; e a
volte si vedeva invece un paesaggio primaverile, d'una
poesia e d'una tranquillità stupefacenti: poggi
verdeggianti e teneri inquadravano un sentiero
ombreggiato dai mandorli in fiore; su questo sentiero
una donna giovane e bellissima, tutta di bianco
vestita e dal volto pensoso e grave, camminava
lentamente.
- "Ma tutto
ciò è nulla", diceva Ebdòmero, se
si pensa a quello che era questa città durante
le notti d'estate. Partenagogeo, pedagogeo,
efebogogeo; questa costruzione, piuttosto bassa e ben
proporzionata, aveva l'aspetto d'un enorme giocattolo
che dopo parecchie prove si fosse messo al suo posto
definitivo...
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- Diffidente com'era
sempre, mise lentamente una mano nella tasca dei
calzoni, l'altra libera, pronta a parare il colpo.
Frotte taciturne di opliti gli passavano accanto con
un che di chiuso e d'ostinato nell'aspetto. Razzi
salivano nel cielo, ma senza rumore; ogni rumore era
morto. Tutto ciò che vi era di duro nel mondo:
le pietre della terra; le ossa degli uomini e degli
animali, sembrava per sempre sparito; una grande onda,
grassa e irresistibile, d'un'infinita tenerezza, aveva
sommerso ogni cosa e in mezzo a questo novello Oceano
la nave di Ebdòmero galleggiava immobile, con
tutte le vele pendenti. Ma allora, lentamente, in modo
enigmatico, una nuova e strana fiducia cominciò
a rinascere nel suo animo. Da principio ebbe paura;
tremò anche, come trema a notte alta il
vegliardo paralitico nella sua poltrona, durante una
notte di temporale, solo nel castello, vedendo la
maniglia della porta girare lentamente, mossa fuori da
una mano misteriosa. Poi, d'un tratto, spazzati da un
soffio irresistibile, la paura, l'angoscia, il dubbio,
la nostalgia, la scontentezza, gli allarmi, le
disperazioni, le stanchezze, le incertezze, le
vigliaccherie, le debolezze, i disgusti, la
diffidenza, l'odio, la collera, tutto, tutto
sparì in un turbine formidabile, laggiù,
dietro quei muriccioli di mattonelle semirovinati,
intorno ai quali i rovi e le ortiche si attaccavano
come una malattia tenace. Flutti dalla glauca
profondità e la cui superficie era tutta
trinata di schiuma, irruppero a rovescio e branchi
immensi di cavalle selvatiche, dagli zoccoli duri come
l'acciaio, sparirono in un galoppare frenetico, in una
valanga di groppe che si sfregavano, si urtavano, si
spingevano, si premevano, si schiacciavano
all'infinito...
- E ancora una volta
fu il deserto e la notte. Di nuovo tutto dormiva
nell'immobilità e nel silenzio. D'un tratto
Ebdòmero riconobbe gli occhi di suo padre negli
occhi di quella donna; e allora capì. Essa
parlò d'immortalità, nella grande notte
senza stelle.
- ..."O
Ebdòmero - disse -, io sono
l'Immortalità. I sostantivi hanno il loro
genere o, meglio, il loro sesso, come tu dicesti una
volta con molta finezza e i verbi, ahimè, hanno
i loro tempi. Hai tu mai pensato alla mia morte? Hai
tu mai pensato alla morte della mia morte? Hai tu mai
pensato alla mia vita? Un giorno, o
fratello...".
- Ma non
parlò più oltre. Seduta presso
Ebdòmero, sopra un frammento di colonna, gli
poggiò dolcemente una mano sulla spalla e con
la destra strinse la destra dell'Eroe...
- Ebdòmero,
con un gomito sulla rovina e il mento nella mano, non
pensava più... Il pensiero suo, all'aura
dolcissima della voce che aveva udito, cedette
lentamente e finì con l'abbandonarsi del tutto.
S'abbandonò all'onde carezzevoli della voce
indimenticabile e su quell'onde partì verso
ignote e strane plaghe...; partì in un tepore
di sole occiduo, ridente alle cerulee
solitudini...
- Intanto, tra il
cielo e la vasta distesa dei mari, isole verdi, isole
meravigliose passavano lentamente, come passano le
unità di una squadra davanti alla nave
ammiraglia mentre, su in alto, lunghe teorie di
uccelli sublimi, d'un candore immacolato volavano
cantando...
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- Tratto da Memorie
della mia vita, Rizzoli, 1962
-
- La mostra della
pittura metafisica, allestita alla Biennale nel 1948
aveva uno scopo solo: Giorgio de Chirico, però
uno scopo assolutamente negativo nei miei riguardi. Si
trattava anzitutto di attirare più che mai
l'attenzione del pubblico italiano, ed anche degli
stranieri, sopra un solo genere della mia arte in modo
che così la gente non potesse interessarsi
troppo ad un'altra parte della mia produzione, quella
che creo e perfeziono da più di quarant'anni e
di cui le numerose opere, appunto per il loro
inconfondibile aspetto di qualità e di
maestria, piacciono molto, piacciono moltissimo, in
fondo piacciono a tutti, in contrasto con le pitture
moderniste che non piacciono a nessuno. Inoltre gli
organizzatori della Biennale del 1948 che avevano
scritto idealmente sui gloriosi stendardi delle loro
legioni "la libertà in arte", sapevano che
esporre quelle mie opere piene di qualità
plastiche e di maestria avrebbe costituito un
pericolosissimo paragone riguardo alle scemenze, alle
brutture ed alle asinerie che i componenti la
Commissione della Biennale, rinata nel 1948,
sostenevano, difendevano e propagandavano con uno zelo
e un ardore veramente ammirevoli. La fregatura nei
miei riguardi avrebbe dovuto consistere nel dar fiato,
con isterico vigore, alle trombe lunghe della
pubblicità, per clamare e proclamare la
metafisica, cioè limitare al massimo la potenza
creativa d'un pittore del mio calibro, limitarla a
alcune decine di quadri fatti, secondo loro, in un
momento di folle ispirazione; i surrealisti parlavano
anche di allucinazioni e che, in seguito, sarei
precipitato allo stato di cadavere vivente, sarei
diventato un individuo il quale, secondo quanto dice
una galleria di Milano, "ha perso il nervo". Ma il
fatto più inaudito dell'allestimento della
Mostra della Metafisica alla Biennale del 1948 fu di
aver battezzato metafisici altri due pittori,
Carrà e Morandi, ed aver messo i loro quadri
insieme ai miei. Commissario speciale per questa
strana mostra della metafisica era stato nominato il
professor Roberto Longhi. Il professor Longhi da circa
quarant'anni si è specializzato nell'arte di
essere sempre pronto quando si tratta di qualcosa di
negativo nei miei riguardi. Infatti più di
quarant'anni or sono egli, come già dissi, in
occasione di una mia mostra di quadri metafisici,
scrisse su quella mostra un articolo sghignazzante e
stroncatorio che portava il titolo: Al dio ortopedico,
e più di quarant'anni dopo si prodigò a
Venezia per un allestimento della Mostra della
Metafisica poiché anche lì sentì
odore di antidechirichismo. Altro fatto notevole di
questa oscena manifestazione fu che la benemerita
commissione della Biennale, dopo aver consacrato i
metafisici Carrà e Morandi, stabilì un
premio di alcune centinaia di migliaia di lire per il
miglior metafisico. Ora tutti sanno che Carrà
ha plagiato in malo modo alcuni miei quadri metafisici
che egli mi vide dipingere a Ferrara in un ospedale
militare durante la prima guerra mondiale. In quanto a
Morandi non è mai stato metafisico. Il colmo
poi fu che il premio della metafisica fu dato
all'unanimità, ma probabilmente per
l'insistenza dei modernistologi professori Roberto
Longhi e Lionello Venturi, al loro benamato Morandi.
Ora tu, caro lettore, se ti vuoi rendere ben conto
della mentalità e della moralità vigenti
oggi in certi ambienti dell'arte moderna e della
moderna cultura pensa a questo fatto: in una mostra
ufficiale, organizzata in Italia con i denari dei
contribuenti italiani, si mettono i quadri di un
notissimo pittore italiano senza invitarlo e senza
nemmeno avvisarlo, andando contro lo stesso
regolamento di tale mostra ufficiale, andando contro
ad ogni regola di buon costume e di ogni morale
consuetudine. Questo notissimo pittore italiano che ha
creato uno stile, o genere che dir si voglia, di
pittura, stile o genere che appartiene a lui e
soltanto a lui, viene esposto insieme ad opere di
altri pittori, arbitrariamente e tendenzialmente
consacrati metafisici e di cui l'uno, come ho detto,
non ha fatto che plagiare e l'altro c'entra con la
metafisica come i cavoli c'entrano a merenda. Poi per
colmo si istituisce persino un premio in denari e tale
premio si conferisce proprio a colui di cui i quadri
c'entrano con la metafisica come i cavoli a merenda.
Pensaci bene caro lettore e vedrai che più
scorretti e impudenti di così si muore. Il
colmo dei colmi fu poi che nel gruppo dei quadri
metafisici a me attribuiti c'era anche un formidabile
falso; un falso che per non vedere che era falso
bisognava avere sugli occhi non fette di prosciutto,
ma lastre di cemento armato. Eppure tanto il professor
Roberto Longhi quanto l'illustre modernistologo,
astrattomane e francorasta, voglio dire l'illustre
professore Lionello Venturi, implacabile propugnatore
della "libertà in arte" e strenuo difensore di
ogni crosta e di ogni asineria che porti il marchio
della decrepita e sgangherata scuola di Parigi, tanto,
dico, il professor Longhi quanto il professor Venturi
non si accorsero durante cinque mesi che durò
la mostra che in mezzo alle opere dell'odiato de
Chirico, lo Sciricò dei francesi, avevano
esposto anche un formidabile falso con la sua firma
contraffatta. Questo falso proveniva da una collezione
di Milano ed era stato portato da Parigi ove pare
appartenesse al poeta surrealista Paul Eluard, quello
stesso dal naso storto e dalla faccia mistica che
preferisco non definire. Durante cinque mesi che
durò la Biennale del 1948, nessuno di quei
luminari della pittura moderna che componevano la
benemerita commissione si accorse che tra gli
autentici de Chirico c'era anche un indecente falso.
Come competenza non c'è male! I componenti la
commissione sapevano però benissimo che, non
solo in Italia, ma in tutto il mondo circolavano forti
quantitativi di quadri a me falsamente attribuiti e
con la mia firma contraffatta, quindi, il più
elementare senso di correttezza, e soprattutto di
prudenza, avrebbe dovuto suggerire loro di mostrarmi,
prima della mostra, almeno le fotografie di quei
quadri che loro arbitrariamente, tendenziosamente,
contro ogni regolamento ed ogni senso di vivere
civile, di correttezza e di moralità, avevano
deciso di esporre.
- Probabilmente i
componenti la benemerita commissione si sentivano
protetti dall'atteggiamento ostile nei miei riguardi
dimostrato da tutti i modernisti d'Italia e di fuori,
ed anche si sentivano difesi da quelle leggende false
e maligne, create sul mio conto, come la leggenda che
io ho "ripudiato la pittura metafisica" e che io
dichiaro falsi tutti i quadri metafisici che mi
vengono mostrati. Una volta pubblicai su giornali
italiani e stranieri che scommettevo dieci milioni di
lire contro dieci lire con chiunque credesse di
potermi dare prove irrefutabili che io avevo ripudiato
la pittura metafisica. Nessuno rispose; nessuno
ardì accettare la scommessa; eppure il rischio
consisteva a perdere solo dieci lire! Tutto questo
prova quale è oggi, in certi ambienti, la
malafede, la mancanza della benché minima
correttezza e del benché minimo coraggio.
- Intentai una causa
alla Biennale, ma, un po' perché l'avvocato che
difendeva i miei interessi non se ne occupò con
molto zelo, un po' per i poco chiari regolamenti e le
scappatoie che in questi casi si possono sempre
trovare, il Tribunale, in prima istanza, diede ragione
alla Biennale.
- Io decisi di
ricorrere in Appello ed intanto in articoli e
conferenze smascheravo sistematicamente le malefatte
ed il malcostume della Biennale di Venezia. In Appello
gli avvocati delle due parti si accordarono per un
compromesso, probabilmente perché la Biennale
intuì che alla fine avrei avuto ragione io.
Però anche questa volta quando si seppe il
risultato della prima istanza la stampa italiana
nobilmente esultò.
- Nel 1949 una
associazione artistica inglese, la Royal Society of
British Artists, mi elesse socio onorario e mi
invitò a fare una mostra di cento pitture nelle
sale della sua sede. Io accettai e qualche mese dopo
inviai cento mie opere a Londra. La mostra durò
un mese ed ottenne molto successo, da ogni punto di
vista.
- All'inaugurazione
il presidente della Royal Society, il pittore Copley,
offrì un banchetto in mio onore nella sala dei
concerti della società. Durante la mostra
furono vendute diverse mie opere ed una fu acquistata
da un noto critico di nome Newton, che faceva la
cronaca di arte sul Sunday Times. Era la prima volta
che un critico mi acquistava un quadro. In
quell'occasione, mentre i miei quadri trionfavano a
Londra, una rivista settimanale italiana di Roma, di
cui non ricordo bene il nome, ma credo si chiamasse
L'Elefante, pubblicò un livido articolo in cui
diceva che agli inglesi non piaceva la mia pittura
"lumacosa". Per soprammercato, insieme all'articolo
velenoso, L'Elefante pubblicò una fotografia
ove si vedeva di schiena me, solo soletto in un angolo
della mostra; ora tu devi sapere, caro lettore, che
alla mia mostra c'era un continuo affluire di
visitatori, benché si pagasse un'entrata; ma
l'autore del livido articolo fece fare apposta quella
fotografia maligna e tendenziosa, scattata
probabilmente pochi minuti prima della chiusura
serale, dopo che l'ultimo visitatore era uscito, per
far credere ai lettori italiani che alla mia mostra
non veniva nessuno. Ecco ancora un tipico esempio del
livore che suscitano in Italia l'alta qualità
delle mie opere e la mia eccezionale
personalità; ciò è anche un
esempio della mancanza, in Italia, di ogni
dignità e d'ogni amor proprio nazionale, specie
in quegli ambienti di scribacchino e
pseudo-intellettuali, pronti sempre a sminuire il
lavoro ed il successo di un italiano ed altrettanto
pronti a pulire le scarpe ad ogni straniero, per
schiappino che sia, soprattutto se si tratta di un
francese. Mentalità da vecchie zitelle e da
teppistoidi. Inoltre in quell'occasione, su tutta la
stampa italiana, ci fu un silenzio solenne riguardo i
miei successi di Londra.
- A venezia in quel
tempo c'era un mio amico, un antiquario che si
chiamava Giorgio Zamberlan. Egli si occupava
commercialmente anche di pittura moderna; aveva molta
simpatia per me, simpatia che io ricambiavo, e molta
ammirazione per la mia pittura. Egli ebbe l'idea di
organizzare a Venezia, durante la stagione estiva,
importanti mostre delle mie opere. La prima di queste
mostre fu allestita in una sala al pianterreno di Ca'
Giustinian. Per potere esporre in quella sala ci
voleva il permesso del Comune. In quel tempo era
sindaco di Venezia un signore comunista, di nome
Gianquinto. Di solito i comunisti, così come i
democristiani, sono in linea di massima ostili a me
poiché essi sono quasi tutti dei filomodernisti
e non sopportano che io, con il verbo e con la penna,
e soprattutto con l'eccezionale qualità della
mia pittura, rimuova le basi dei loro idoli dai piedi
di argilla. In Russia le modernisticherie sono messe
in sordina ma i dirigenti di Mosca, per i Paesi fuori
della Russia, per i Paesi democratici non fanno nulla
per ostacolare il continuo abbassarsi ed il continuo
disgregarsi di ogni forma d'arte. Essi pensano, e
probabilmente con ragione, che questa enorme
mistificazione che è la cosiddetta arte
moderna, così come l'aumento
dell'omosessualità, dell'uso di stupefacenti,
della dilagante delinquenza minorile e non minorile,
della eccessiva libertà di stampa e di tante
altre squisitezze del nostro tempo, contribuiscano a
rendere sempre più debole e sempre meno
compatta la serietà dei Paesi occidentali.
Però io non credo che tra quelli che oggi in
Russia si occupano di arte e di cultura, questo
rinnegare il modernismo in arte sia un sentimento
molto sincero. Io credo anzi che molti di loro pensino
con grande tenerezza a Parigi e a Picasso, a
Matisse...
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- 121
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- Giunsi a Parigi;
era l'autunno del 1925. Ferveva, nella capitale
francese, il grande baccanale della pittura moderna. I
mercanti di quadri avevano istituito una vera e
propria dittatura. Erano loro che, con i loro
prezzolati critici d'arte, creavano o distruggevano un
pittore e ciò indipendentemente dal suo valore
di artista. Così un mercante, o un gruppo di
mercanti, potevano benissimo valorizzare i quadri di
un pittore completamente sprovvisto del benché
minimo ingegno, rendere il suo nome celebre in tutti i
continenti e potevano altresì boicottare,
soffocare e ridurre alla miseria un artista di gran
valore; essi facevano tutto ciò approfittando
della confusione che regnava e purtroppo regna
più che mai in fatto di arte, e sfruttavano
ignobilmente lo snobismo e l'imbecillità d'una
certa categoria di persone. La loro clientela era
soprattutto costituita da anglosassoni, affetti da
snobite acuta, e specialmente da nordamericani; poi
avevano come clienti anche alcuni scandinavi, alcuni
tedeschi, parecchi svizzeri, qualche belga e qualche
giapponese; i clienti francesi erano in numero assai
limitato ed in numero ancora più limitato erano
i clienti spagnoli ed italiani; quelli italiani poi
erano quelli che, bisogna dirlo a nostro vanto ed
onore, meno di tutti abboccavano all'amo. Tra i
mercanti e quelli che stavano loro attorno esisteva
una vera e propria massoneria, con i suoi riti, le sue
leggi ed i suoi sistemi che funzionavano a meraviglia.
Un famoso trucco era quello della falsa vendita
all'asta, all'hôtel Drouot. Un mercante, ad
esempio, voleva far credere che i quadri d'un certo
pittore, da lui sostenuto, costassero carissimo; egli
metteva uno di questi quadri ad un'asta
all'hôtel Drouot; il quadro in questione di
solito apparteneva ad un collezionista che era
d'accordo con il mercante; lo stesso mercante poi
inviava il giorno dell'asta alcuni uomini di fiducia
che facevan salire il prezzo del quadro e,
naturalmente, sacrificava una certa somma per pagare
le percentuali alla casa di vendita; così il
quadro figurava come venduto ad un prezzo altissimo,
mentre invece non era stato venduto a nessun prezzo.
Poi veniva messo a giacere per un certo tempo nel
retrobottega del mercante o nelle cantine del
collezionista. Lussuose riviste erano prezzolate
apposta per sostenere una data pittura o un dato
genere di pittura ed in tutta questa oscena baraonda
si parlava di tutto fuorché della
qualità d'un opera e fuorché del valore
artistico di un quadro. Mai, da che il mondo esiste, e
da che gli uomini si affannano a disegnare, a
dipingere, a plasmare ed a scolpire, mai, dico, i
più alti valori dello Spirito e le più
alte aspirazioni dell'uomo, che sono l'arte e le opere
d'arte, sono state a un tal punto ed in modo
così bestiale prostituite e trascinate nel
fango. Due delle più grandi vergogne del nostro
tempo sono: l'incoraggiamento al male che si fa in
fatto di arte ed al quale incoraggiamento non si
oppone nessuna autorità, né civile,
né ecclesiastica e la speculazione che si basa
sull'inganno, si può dire anche addirittura
sulla truffa, ed approfitta dell'ignoranza, della
vanità e della stupidità degli uomini di
oggi. Tutto questo aveva ed ha un solo ed unico scopo,
una sola meta: il denaro. Guadagnare ad ogni costo,
guadagnare in ogni modo, sotto l'egida d'un falso
ideale artistico. Io accuso apertamente e
coraggiosamente tutta l'ignobile genia che ha
contribuito e contribuisce a far decadere la pittura
al punto al quale è oggi decaduta. L'accuso per
oggi e per domani ed assumo pienamente tutta la
responsabilità di tale accusa. Sono sicuro che
gli sforzi che io faccio e che forse anche qualche
altro fa, per riportare la pittura sopra un piano di
nobiltà e di dignità, non saranno vani;
non sono un teorico, o uno che faccia discorsi a
vuoto; se parlo così è perché ho
studiato ed esaminato a fondo il problema. Anche altri
hanno parlato e scritto sulla decadenza della pittura
moderna, ma si tratta di gente che capisce fino ad un
certo punto e non ha saputo mettere il dito sulla
piaga, così come ho saputo farlo io; poi per
aver veramente il diritto di parlare in tal modo
bisogna anzitutto essere un pittore di grande levatura
e bisogna aver potuto dipingere i quadri che io solo
sono riuscito a dipingere in questa prima metà
del nostro secolo. L'attuale modo di occuparsai
dell'arte, il modo di occuparsene da scemi, da ladri e
da ruffiani, è poi dilagato in tutto il mondo,
ma l'origine e la centrale sono state a
Parigi.
- Ora che ho scritto
senza peli sulla penna, così come lo dico senza
peli sulla lingua, ciò che penso della pittura
moderna e di quelli che l'hanno sostenuta e divulgata
e di quelli che lo fanno tuttora, riprendo il filo dei
miei ricordi, delle mie osservazioni, delle mie
riflessioni e delle mie avventure personali.
- Poco dopo esser
giunto a Parigi trovai una forte opposizione da parte
di quel gruppo di degenerati, di teppistoidi, di figli
di papà, di sfaccendati, di onanisti e di
abulici che pomposamente si erano autobattezzati
surrealisti e parlavano anche di "rivoluzione
surrealista" e di "movimento surrealista". Questo
gruppo di individui poco raccomandabili era capeggiato
da un sedicente poeta che rispondeva al nome di
André Breton ed il quale aveva come aiutante di
campo un altro pseudo-poeta di nome Paul Eluard, che
era un giovanottone scialbo e banale, con il naso
storto e una faccia tra di onanista e di cretino
mistico. André Breton, poi, era il tipo
classico del somaro pretenzioso e dell'imponente
arrivista. Il signor André Breton, insieme ad
alcuni "surrealisti", aveva acquistato, dopo l'altra
guerra, ad una vendita all'asta e per pochi soldi, un
certo numero di quadri miei che io avevo lasciato in
un piccolo studio di Montparnasse quando nel 1915
partii da Parigi per venire in Italia. Il proprietario
dello studio, per rifarsi delle pigioni che non ero
riuscito a pagare durante il periodo della guerra,
aveva venduto i miei quadri insieme ad un po' di
mobilio...
- Giorgio de
Chirico
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