È uscito il n° 137-138
Gennaio-Febbraio 2004
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 27 febbraio 2004
 
In vendita nelle seguenti librerie
 
 
Satira e Poesia:
Marco Valerio Marziale
L'insuperabile epigrammista dell'età imperiale
di Massimo Barile

Nel suo crudo realismo, in modo spregiudicato e talvolta per bisogno di raggranellare quanto gli bastasse per vivere, Marziale disse e scrisse, quando potè, pane al pane e vino al vino, non dimenticandosi mai della massima «Primum vivere deinde philosophari»: ma quella massima riassume la filosofia inconsapevole di quasi tutti gli uomini. Di certo calcò spesso la mano con una crudele satira contro molti personaggi che affollavano la società del suo tempo; con il suo sguardo osservò attentamente ogni cosa ed ogni aspetto umano dal vizio capitale al più semplice gesto malizioso; con i suoi epigrammi scrutò le piccole vicende quotidiane e le rese eterne, incensò i potenti per necessità e per fame, ironizzò sulle donne con tremenda perfidia ma fu anche il poeta che si commosse alla morte della giovane Eròtion e i due epitaffi dedicati alla fanciulletta di appena sei anni «fragrante come una rosa di Pesto, dolce come il miele di Imetto» sono tra i più belli della letteratura latina. In questi epigrammi Marziale regalò una insolita delicata umanità e la sua figura di poeta si aprì ad una visione carezzevole ed amorosa che non troviamo di certo nei carmi satirici. A parte queste rare eccezioni alla sua natura, Marziale fu il poeta dei costumi, osservò la società romana ritraendone acutamente i vizi e i difetti ma giudicò sempre con la sua testa (a parte qualche bella parola spesa per il nuovo imperatore di turno e che rappresentava ormai un rinnovato esercizio per rimanere a galla e sopravvivere in un mare infestato da squali). Fin dall'inizio soffrì l'ingiustizia dei tempi sulla propria pelle sempre arrabattandosi chiedendo ora ad uno ora ad un'altro protettore od amico qualche sesterzio. Come lo stesso Marziale ci riferisce di sovente la gente per la strada si fermava a guardarlo e si meravigliava che un poeta così grande portasse un mantello lacero e scolorito. Se poi teniamo conto che quella bella "toga di finissima lana" non era altro che un regalo di un certo Partenio, forse un comandante militare di Domiziano, possiamo intuire che il poeta godeva del favore del principe nonché dell'amicizia e della considerazione dei funzionari che ruotavano intorno all'imperatore: era l'abito appropriato alla dignità di equestre ma era come una "lampada accesa sulla sua miseria". L'imperatore gli aveva dato un titolo, l'amico un elegante vestito degno d'un grande poeta: per Marziale, fu vero "memorabile dono" e di quella veste signorile fece grandissimo uso sino a che non la vide ridotta, dopo un anno, logora e stinta e ancora una volta degna della sua povertà.
E tale difficoltà del vivere lo accompagnò per quasi tutta la vita fino a fargli scrivere: «D'accordo, sono povero, lo sono sempre stato. Tutti però nel mondo mi leggono e tutti dicono: è lui! Questo privilegio a pochi lo ha concesso la morte: a me, vivo, lo concede la vita... Tu sei molto ricco, lo so, ma non potrai essere mai quel che sono io; quel che sei tu può esserlo il primo che capita!».
(Ogni volta che rileggo queste parole di Marziale devo ammettere che non posso far altro che immaginare la grande forza che doveva animarlo, la coscienza del proprio valore, la violenza nell'umiliare chi aveva da mettere sul piatto solo i soldi e null'altro: mentre lui poteva mettervi la sua arte sempiterna.)
Questa sicura coscienza della propria affermazione poetica come garanzia di una superiorità morale è un riconoscimento dei valori della propria satira che va oltre il gusto del ridere e del far ridere fino ad arrivare alla volontà di ammonire, di correggere, di stigmatizzare il vizio cosicché gli uomini leggendo i suoi epigrammi conoscano i propri costumi e diventino migliori: «agnoscat mores vita legatque suos». Ecco allora che emergono il senso etico e la pensosa umanità dell'epigramma satirico marzialiano. È doveroso comunque non fraintendere tale affermazione perché non v'è dubbio che la maggioranza degli epigrammi ha carattere satirico ed è qui che Marziale mette a fuoco le sue indubbie capacità ed affina sempre più la sua innata arguzia rivelando pienamente la sua figura più sincera e netta di uomo e di poeta.
Ma il buon Marziale si avvicina all'uomo non con la "violenza appassionata" di Catullo o con "l'austerità declamatoria" di Persio né con l'aggressività satirica esasperata fino al parossismo di Giovenale: piuttosto guarda all'uomo con un sorriso malizioso e spesso sfrontato ma sempre terribilmente spassoso, divertito e assai comprensivo dell'andazzo della vita e del destino che sa essere cinico e baro con chiunque: il grande Marziale mira a colpire il vizio e non l'individuo ben identificato con nome e cognome, tende a fotografare il peccato e non a garrotare il peccatore. Il suo motto è: «Parcere personis, dicere de vitiis».
Davanti ai suoi occhi ogni giorno passava una miriade di personaggi che ben potevano servire come "materiale umano creativo" per la sua arte. La sua parola nasceva sì dal mondo interiore del poeta ma era ispirata dalla realtà quotidiana dell'esistenza di singoli uomini e donne: la vita di Roma, senza distinzione sociale, con tutte le sue miserie, con gli innumerevoli vizi, i traffici, le calunnie e le debolezze è passata sotto la sua mano. Le sferzate satiriche non hanno risparmiato nessuno: gli amici avari (i più avari di tutti!), i filosofi da strapazzo, i medici becchini, gli avvocati imbroglioni, gli astrologi, i dentisti, i barbieri pericolosi, gli spacciatori di rimedi miracolosi, gli usurai, i buffoni, i ladri e i faccendieri, gli spreconi e gli spiantati, i cacciatori di dote e di eredità, i boriosi e i villani, i vecchi rimbambiti, donne vanesie e sdentate, le matrone galanti, gli adulteri incalliti, i giocatori d'azzardo e quant'altri potessero capitare a tiro.
E Marziale fu arguto poeta dei costumi con una sorprendente capacità di osservare la società romana e ritrarla negli epigrammi: ecco allora che prendono vita le figure di Otacilio, semplice incaricato di un rione, attanagliato dalla mania di superare tutti per importanza e per ricchezze ma davanti al console Torquato, padrone di una villa sontuosa, con terme e preziosi marmi colorati, può mettere sul piatto sono un piccolo fondo rustico ed una vasca da bagno; poi Attalo, il faccendone sempre pronto a far cause ed a trattar affari; Saleiano il cacciatore di eredità che piange cinicamente la morte della moglie Secondilla che gli portò in dote un milione di sesterzi; Ermòcrate, il medico la cui sola apparizione in sogno conduce alla morte (dal che si desume che Marziale dovesse avere qualche conto in sospeso con i medici); Lentino, ricco, stravecchio e senza figli, che pensa ancora a tingersi i capelli e crede di avere amici sinceri non immaginando che costoro si augurano solo la sua morte; e poi ancora efficaci profili di azzimati bellimbusti, di damerini della Roma imperiale che meritano di essere ricordati: «Un damerino è un uomo che ha i capelli divisi da una riga ben fatta, che emana sempre profumi, che canticchia fra i denti le canzoni d'Egitto e di Spagna e sa agitare in cadenza le sue braccia depilate, che non lascia mai in tutta la giornata le sedie delle dame e che ha sempre qualcosa da raccontare loro all'orecchio; che sa tutti i pettegolezzi di Roma e vi dirà il nome della donna di cui Tizio è invaghito e quali sono le compagnie che frequenta Caio».
 
Ma è soprattutto la donna e la vanità femminile che è messa sotto accusa in una serie infinita di figure femminili dalle quali traspare un certo misoginismo di Marziale: Fabulla, donna bellissima, graziosa e ricca ma che a troppo lodarsi diventa antipatica; Paola che finalmente ha messo giudizio e vuole sposare Prisco ma anch'egli è saggio e non ne vuole sapere; e poi Gellia che si vanta di avere antenati illustri e sostiene di non poter sposare che un senatore ma si è dovuta accontentare di un facchino; ed infine Aelia che viene straziata dal poeta che la ritrae ormai senza denti e finalmente può tossire tutto il giorno senza espellere più niente e via di seguito in questa sequela di personaggi che, fissati per sempre dalla mano di Marziale, esprimono in modo pungente e fulmineo l'anima autentica della società di quel tempo.
È una vasta galleria di personaggi e di maschere grottesche che a volte rasentano gustosi quadretti di vita quotidiana, di scenette spassose, di fotografie fissate per l'eternità còlte dal vero anche se con sottofondi, colorazioni ed intendimenti vari ma sempre convergenti verso un unico ritratto che vale per tutti: l'Uomo così com'è veramente, con la sua umanità e la sua crudeltà, soprattutto con i suoi vizi, con le vanità e le manie, le sue debolezze e i suoi istinti. Con molta sincerità e con vanto Marziale dirà che la sua pagina «non conosce né Centauri, né Gòrgoni, né Arpìe, ma solo l'uomo: hominem pagina nostra sapit».
 
Ma com'era la vita a Roma al tempo di Marziale? La storia non la fanno solo gli imperatori o i condottieri con le loro guerre o i grandi uomini della politica con le manovre e le congiure: la storia contribuiscono a farla tutti e molte volte un grande evento o una svolta epocale hanno inizio proprio dai mutamenti della società dei quali solo pochi protagonisti si fanno interpreti. Quella moltitudine romana con la sua vita di ogni giorno è la fotografia fedele di un'epoca dalle nefandezze alla grandezza ed è questa l'umanità che Marziale fisserà nei suoi epigrammi.
La grande Roma, caput mundi, dominatrice del mondo, era in realtà una città rumorosa, tumultuosa e contraddittoria: luogo di speculazioni indescrivibili, centro pulsante di vizi e stranezze incredibili, luminosa e sordida, "cenciosa e grandiosa al tempo stesso". Una città assai disordinata, cresciuta troppo in fretta e senza un piano urbanistico razionale: un incendio poteva distruggere in poco tempo interi quartieri, in certe zone ci si doveva inerpicare su e giù per strade strette e tortuose e si avvertiva una situazione di degrado dovuto ad una incuria perdurante da tempo. (Alcuni rimedi saranno presi dai vari imperatori di turno ma sempre con tempi assai lunghi).
Ma non v'erano solo scomode e piccole abitazioni molte delle quali ancora in legno: fra le erbacce e i viottoli affollati di gente e mercanzie d'ogni genere si potevano trovare, sparse qua e là, le case dei ricchi e dei potenti che erano tutt'altra cosa: ecco allora che apparivano alla vista palazzi bellissimi con colonne monumentali, splendidi giardini con fontane e giochi d'acqua, piscine, palestre e quant'altro di confortevole per l'epoca incluso il riscaldamento ad acqua delle pareti di casa.
Ma queste lussuose case non erano affatto numerose perché i ricchi ormai da tempo preferivano abitare fuori Roma nelle loro splendide ville immerse nel verde dove poter ritrovare la pace e la tranquillità lontano dall'urbe caotica: anzi era un "obbligo mondano" possedere fuori Roma una sontuosa villa dove poter invitare gli amici, dare feste, passare in pieno relax le "vacanze" estive e il periodo invernale. Nella capitale ormai avevano solo una piccola abitazione quasi disadorna (per scoraggiare i numerosi ladri che nelle tenebre di alcune zone periferiche scorrazzavano indisturbati a tal punto da far scrivere «solo un pazzo o un forestiero avrebbe potuto avventurarsi da solo in certi quartieri dopo il calar del sole») che usavano quasi come recapito per brevi soggiorni d'affari o per le festività pubbliche alle quali non potevano mancare.
Andar per Roma non era certo facile né agevole: il continuo via vai dei carri per il trasporto delle merci, le schiere di servi e cocchieri che accompagnavano i ricchi e i potenti creavano un caos indescrivibile fino a che si arrivò persino a stabilire che i carri per trasporto potessero circolare solo nelle ore notturne. Fu così che Roma al calare delle tenebre divenne assai rumorosa, illuminata dalle fiaccole e invasa dalle imprecazioni e dalle liti continue dei carrettieri, dei bottegai e dei malfattori: in molte strade di Roma era ben difficile dormire e lo stesso Marziale aveva scritto in un triste dicembre del 95 d.c.: «Roma, grazia per un cortigiano affaticato, per un affaticato cliente. Quanto tempo ancora portando saluti fra togatucci e battistrada correrò tutto il giorno per una manciata di soldi? ...Io per prezzo dei miei libri (quanto mai valgono essi?) non vorrei le campagne di Puglia: né l'Ibla mi tenta né il Nilo ricco di messi né l'uva squisita che dal sommo clivo di Sezze guarda le paludi Pontine. Mi chiedi che cosa voglio? dormire!».
Come se non bastasse a Roma si accorreva da ogni parte del mondo: era un immenso porto di mare con ogni tipo di traffico, nullatenenti e straccioni ad ogni crocevia, approfittatori d'ogni risma che sguazzavano in quella vita quotidiana sempre alla ricerca di un colpo di fortuna che potesse tramutarla da miserabile a magnifica.
Dall'Africa, dalla Gallia, dalla Spagna e soprattutto dall'Oriente si veniva a Roma in cerca di fortuna. C'era di tutto: dal nostro buon Marziale ai maestri d'eloquenza, ai filosofi, pittori, scrittori di teatro e una moltitudine di attori, danzatori, ballerine, musici o piccoli imprenditori con schiere di belle ragazze pronti a metter in piedi spettacoli o lupanari, schiere di indovini, maghi, fattucchiere, sacerdoti di divinità con riti orgiastici per non parlare delle schiere di gladiatori, acrobati, saltimbanchi e via dicendo.
Era un processo ormai inevitabile anche perché il lusso sfrenato delle classi superiori della grande Roma offriva numerose possibilità di far fortuna a chi aveva una qualche arte e un minimo di intraprendenza. Già da tempo in alcune case di persone raffinate e colte come ad esempio un Mecenate o un Asinio Pollione erano stati ospiti famosi scrittori ma in quelle dimore regnava la vera signorilità dove il lusso era visibile solo da un occhio competente e tutto era pervaso dalla famosa "severità e serietà romane": costoro non si sarebbero certo lasciati ingannare dal primo ciarlatano od imbroglione. Ora invece eravamo di fronte ad una folta schiera di nuovi ricchi portatori di una inevitabile grossolanità e per di più ignoranti e rozzi. Roma era diventata una città di milionari e di mendichi: non c'era spazio fra questi due estremi. Da un lato una moltitudine di nullafacenti che sbarcavano il lunario alla meglio e dall'altro una ristretta cerchia di persone che passavano buona parte della giornata a tavola: mollemente adagiati sui lettini mentre assistevano a vari spettacoli con danzatori, attori, acrobati e musici d'ogni genere.
Dalle portate, con prelibatezze d'ogni genere, un cittadino romano dei "bei tempi andati" non avrebbe mai detto di essere a Roma: tanto per curiosità ecco il menù di una cena "normale" riferito da Macrobio: «Come antipasti ricci di mare, ostriche fresche, arselle, valvule; e poi tordi con asparagi, polli farciti, pasticci d'ostriche e di frutti di mare, datteri di mare; poi ancora beccacce, cotolette di capriolo e di maiale, pollame vario, beccafichi». E questo era solo l'antipasto. Poi veniva la cena vera e propria con il dominio assoluto di piatti a base di maiale: «Testa di maiale, petto di maiale, pasticcio di maiale, maiale allo spiedo, arrosto e in umido; poi varie portate di cacciagione con lepri e uccellagione. Infine dolci, torte, biscotti del Ponto. Il tutto innaffiato da vini forestieri: di Sicilia, di Lesbo, di Chio. Il vecchio, semplice e schietto Falerno nazionale era ormai dimenticato».
Il vero talento dei ricchi signori era ormai riuscire ad ingoiare tutta quella roba: altro che combattere per dominare il mondo.
Finite le libagioni buona parte della città era ancora sveglia: il traffico dei carri e delle lettighe condotte in tutta fretta da solerti servi, imprecazioni dei mercanti, gli ultimi schiamazzi dalle bettole e dai bordelli mentre sulla strada per il mare si provvedeva allo smistamento delle merci che ogni notte provenivano da Ostia. Alle porte della città si affollavano i venditori della campagna con ogni prelibatezza per il "mercato delle ghiottonerie" presso la via Sacra affinché il giorno dopo la festa potesse ricominciare. Già si preparava il Foro per la nuova giornata politica e mercantile e per le vie appena illuminate dalle fiaccole era un andirivieni continuo. "Ma Roma quando dormiva?"
Il buon Marziale che aveva una piccola casa sul Quirinale, dove abitava in un terzo piano rumoroso ed affollato, ormai non riusciva più a dormire con tutto quel frastuono che spesso lo rendeva irrequieto dopo notti insonni: «Il povero non può né pensare né dormire in Roma. Al mattino i maestri di scuola, di notte i fornai, per tutto il giorno i martelli dei calderai fanno impossibile la vita. Qua un cambiavalute sfaccendato fa risonare sopra il sudicio banco le monete di Nerone, là un battitore con un palo lucente picchia e ripicchia sulle pietre il lino di Spagna; il diavolìo non cessa mai: e sono i preti urlanti e invasati di Bellona e il naufrago ciarliero che mostra la sua disgrazia e l'ebreo accattone istruito dalla madre e il venditore cisposo di zolfanelli. Oh si dorme bene in Roma, ma nelle case dei grandi signori che hanno le campagne e le vigne nel mezzo della città. Là, negl'intimi recessi dei palazzi, è il sonno: nessuna voce turba i silenzi e il giorno non entra se non quando è voluto. A me pure le risate della gente che passa rompono il sonno e tutta Roma è al mio capezzale». Ecco la mano di Marziale: arguta, incisiva e fulminea.
E Roma era proprio così: per pochi fortunati era una festa continua, una baldoria sfrenata, mentre per molti era un affaccendarsi continuo. Altri ancora preferivano dedicarsi ad affari più redditizi come i tenutari dei bordelli che in Roma trovavano terreno fertile o come la moltitudine di ruffiani e delatori.
Quella Roma affaristica offriva spazi di manovra impensabili e i mercanti facevano affari d'oro con i prodotti di lusso: il padrone di una pescheria poteva fornire duemila murene per un solo pranzo; i mercanti d'uccelli mettere a disposizione nel giro di poco tempo più di cinquemila tordi in una sola volta; e caprioli, cinghiali e selvaggina si vendevano a carissimo prezzo per i banchetti e le orge private. Il mestiere più antico del mondo era attività assai remunerativa e giova ricordare che a Pozzuoli ogni prostituta aveva la sua bella casetta con una propria fonte sulfurea privata e riservata ai facoltosi clienti.
Non è un caso che un "ricco autentico" non poteva avere meno di due ville: una vicino alla capitale, un'altra presso una spiaggia come Baia o Pozzuoli. Più che ville erano veri templi del lusso: mobili pregiati, argenti, pietre preziose, perle d'Oriente e suppellettili d'oro massiccio.
Non c'è che dire: Roma era una città di intenditori e più che esser affinati in politica o strategia militare si doveva esser capaci di riconoscere i "veri pavoni di Samo, le gru di Melo, i capretti di Ambracia, il tonno di Calcedonia, le murene di Cadice, le ostriche di Taranto, gli storioni di Rodi, i datteri d'Egitto" e via dicendo.
In un mondo votato al lusso, al piacere, all'emulazione insensata anche i patrimoni più cospicui potevano disperdersi nel giro di pochi mesi ed allora il poveretto, fino ad allora riverito ed adulato, si ritrovava solo e senza più un amico: in quel tempo «esser povero non era più, o soltanto, la peggiore ignominia né il peggior delitto, ma l'unico». Tutto poteva essere perdonato se la tasca era ben fornita ma la miseria non si perdonava a nessuno.
Allo stesso modo poteva esser facile fare qualche soldo grazie alla fortuna perché bastava andare a genio a qualche potente o famiglia illustre per sistemarsi per qualche tempo sempre che il destino tenesse lontano le sventure.
Anche il giovane Marco Valerio Marziale, dal tranquillo borgo spagnolo di Bilbili venne a Roma in cerca di fortuna e, poco più che ventenne, per sbarcare il lunario dovette adattarsi all'umile condizione del cliente sempre incerto del domani e sempre pronto a scroccare una cena o a chieder soldi. Famosi alcuni epigrammi a tale riguardo: «O Massimo, ti scrocco, me ne vergogno ma te la scrocco, la cena; e tu poi ne scrocchi un'altra: ormai dunque siamo pari... Mi basta essere servo, non voglio essere un viceservo. Chi sta sopra, non deve, o Massimo, avere chi gli sia superiore" ed ancora "Niente vuoi darmi da vivo; dici che mi lascerai le tue sostanze da morto. Ma questo è proprio, o Marone, voler farsi augurare la morte!». Un letterato, specie un poeta, non aveva allora altra risorsa per vivere che la liberalità dei ricchi o la protezione di qualche amico potente ed influente: il merito poetico, la fama, la rinomanza non fruttavano che applausi, e se anche l'opera aveva molti lettori, chi guadagnava era soprattutto il libraio e Marziale ne arricchì molti tra i quali, come ricorda il poeta, Atrecto, Secondo, Valeriano e Trifone.
Nel cuore aveva molte speranze anche perchè la fortuna aveva già baciato altri prima di lui come ad esempio Seneca. La sua cultura, il garbo e lo spirito gli aprirono le porte di molte case come quella dello stesso Seneca dove conobbe i congiunti e i familiari del filosofo, il giovane poeta Lucano e la sua bellissima moglie Polla Argentaria. Marziale potè conoscere la nobilissima famiglia dei Pisoni e goderne i favori e l'amicizia e poi fu ospite nella casa del famoso retore Quintiliano e di altre illustri famiglie romane. Ma l'illusione di poter conquistare facilmente un posto al sole grazie alla sua poesia fu infranta dal dramma della congiura capeggiata dal suo amico Pisone che travolse intorno a Marziale le amicizie e gli appoggi senza risparmiare gli ambienti che seppur estranei alla congiura furono travolti dal sospetto e si fecero diffidenti. Marziale si ritrovò così solo e deluso di fronte alla dura realtà del resto inattesa. Di sicuro dovette scegliersi nuovi e meno degni protettori ed amici: inoltre erano tempi duri per Roma funestata da guerre civili, stragi, devastazioni mentre gli imperatori si alternavano al soglio imperiale.
È certo che i protettori e gli amici lo esortavano a fare l'avvocato e anche il buon Quintiliano lo consigliò di avviarsi alla carriera legale ma non aveva compreso la vera natura di Marziale come del resto aveva fatto Plinio ma quella vita non era per lui. Lui ripudiava l'avvocatura come "ufficio sconvenevole e molesto alla sua indole" preferendo paradossalmente il mestiere del cliente che almeno gli concedeva un po' di tempo e qualche occasione per la sua poesia.
Marziale voleva scrivere e soprattutto farsi notare e la grande occasione si presentò dopo anni di delusioni: finalmente nell'80 d.c., quando Tito inaugurò l'anfiteatro Flavio, Marziale compose e dedicò all'imperatore una raccolta di epigrammi, il Liber de spectaculis, con l'elogio del Colosseo, vivaci descrizioni di lotte tra belve, spettacoli di gladiatori e vari giochi offerti al circo dall'imperatore e, parte più importante, l'adulazione di Tito che contraccambiò generosamente col ius trium liberorum, cioè il privilegio di non pagare imposte concesso a chi aveva tre figli. Il fatto curioso è che Marziale era scapolo e non aveva figli anche se è possibile abbia contratto fittizie nozze al solo scopo di poter ottenere tale privilegio. E non fu l'unico riconoscimento perchè più avanti anche Domiziano gli concederà il titolo di tribunus militum grazie al quale si passava nella classe degli equites.
Qualche anno dopo tra l'84 e l'85 pubblicò con l'editore Trifòne altri due libri di epigrammi Xenia e Apophoreta che contenevano poesie sempre d'occasione ma che ebbero il merito di diffondere il nome del poeta in una cerchia più vasta di lettori e di ammiratori tra i quali anche Giovenale. Le prima raccolta di epigrammi conteneva componimenti accompagnatori dei doni soprattutto mangerecci che i romani si scambiavano coi parenti durante le feste dei Saturnali mentre nella seconda raccolta le iscrizioni e le dediche per i doni presentati all'ospite che li sorteggiava accomiatandosi. La presentazione era a coppie di componimenti: la dedica per il dono ricco s'alternava a quella per il dono più modesto.
Ma l'opera che consegnò ai secoli la sua fama furono i libri di Epigrammi pubblicati tra l'85 e il 96. Marziale stesso li ordinò in dodici libri con l'intento di contrapporre la sua opera, così agile nell'infinita varietà dei motivi trattati, ai poemi epici del suo tempo. In seguito Marziale trasse una sorta di antologia dagli ultimi due libri escludendo furbescamente le frecciate più velenose nell'intento di ingraziarsi il nuovo imperatore Nerva. Nei dodici libri di questa raccolta prevale il criterio della varietà di argomenti trattati e di metri: dall'esametro, al distico elegiaco al trìmetro giambico e via dicendo.
In totale un Corpus di oltre 1550 epigrammi nei metri più vari: l'opera della sua gloria è giunta integra fino a noi quasi a render omaggio al poeta mentre i versi giovanili a cui Marziale allude come ai "versi dei vent'anni" sono andati dispersi.
Negli Epigrammi il poeta rivelò le sue delusioni, le sue ansie quotidiane, i suoi sconforti e le sue debolezze: insomma vi ritroviamo l'uomo.
 
Tanti onori ma poche opere di bene perchè a Marziale ben poco servivano le onorificenze e i titoli se poi si trovava senza un soldo in tasca: cambiavano i protettori ma la sua vita era sempre contrassegnata da un continua lotta non più per la gloria che ormai aveva conquistato ma per potersi dire poeta famoso e benestante: il merito poetico non mosse mai a compassione nessuno.
Anzi dopo la pubblicazione dei primi cinque libri degli epigrammi verso il 90 d.c. Marziale sentiva già serpeggiare le gelosie dei poetastri: «La mia Roma ama loda canta i miei versi: io sono su ogni petto e in ogni mano. Ecco un tale che arrossisce, impallidisce, si stupisce, sbadiglia, odia. Bene così: ora i versi miei mi piacciono». Ormai i suoi versi erano letti non solo a Roma ma anche nelle più lontane contrade e molti uomini di cultura si interessavano alla sua arte. Era la gloria ma l'applauso non era sufficiente per il "povero cliente" Marziale già avanti negli anni ed ancora in attesa che gli déi propizi gli offrissero a Roma il suo Mecenate.
Come poeta usufruì certamente di riguardi e di favori, spesso dell'appoggio di amicizie influenti e la sua condizione non fu certo così priva di ogni diletto come può apparire dai suoi versi tuttavia si avverte spesso una continua aspirazione ad una piena indipendenza e alla tranquillità come a rispecchiare in lui la figura di un poeta ormai famoso eppur agitato ed afflitto dall'ingiustizia della vita. Lo stesso piccolo podere nelle vicinanze di Nomentum, donatogli forse da Seneca, seppur implicava un modesto dono da offrire per i saturnali, "una cesta di melagrane e qualche anfora di vino", era in effetti solo un modesto podere mentre la piccola casa la ottenne solo verso la fine dell'anno 94: «una piccola dimora che non aveva il refrigerio dell'acqua sebbene sentisse accanto il mormorio di una fontana».
Ecco perchè la "clientela" fu la sua costante tortura e la grama esistenza gli "intossicò la vita": poteva vantare una piccola dimora che offriva un buon ritiro sereno ma non procurargli il pane quotidiano.
In un famoso epigramma Marziale descrive il suo ideale di poeta: «Vuoi la ricetta per vivere felice? Una sostanza avita, non procuratasi con il sudore della fronte, un campo fertile, un focolare sempre acceso, animo sereno, salute fisica, saggia semplicità, conversazione affabile, notti senza incubi, essere ciò che sei e non preferire nulla di più, alla fine nè temere nè bramare l'ultimo giorno».
Questa ricetta di vita fu irrealizzabile per il povero Marziale che si trovò al contrario a dover chiedere e molte volte non ottenere niente: esemplari gli epigrammi dei famosi cento sesterzi chiesti in prestito a Febo che perde tempo, tergiversa, tentenna e alla fine non dà niente e poi quello in cui chiede un prestito a Gaio, un vecchio compagno di gioventù che ora ha la cassetta ben fornita ed alla richiesta si sente rispondere: «Fa l'avvocato e sarai ricco!». A questo punto il buon Marziale affila la sua lingua e risponde da par suo: «Dammi quello che ti ho chiesto, non so che farmene dei tuoi consigli!».
Di certo per Marziale era sempre meglio andar a caccia di pranzi dagli amici e di prestiti dai protettori piuttosto che far soldi come delatore o trafficante o calunniatore di professione. "Poeta perditempo" fu definito da Lucio Giulio, un suo protettore, e "poeta mendicante" da altri: in fin dei conti avevano tutti ragione. Marziale è spesso un po' accattone e fannullone: in alcuni momenti smarrisce la sua dignità ma solo perchè non sente altra necessità che quella di alimentare la sua arte nei confronti della quale è capace di sacrificarsi totalmente.
È vero: chiedeva ai suoi protettori sovvenzioni e regalie ma era l'unica cosa che gli restasse da fare per sopravvivere e d'altronde non aveva allora altra risorsa per vivere.
Del resto un uomo come Marziale, a cui non mancavano l'ingegno e la cultura, e neppure il favore di alcuni imperatori, poteva tentare con facilità e con buona fortuna di acquisire ricchezze con i mezzi delle pubbliche denuncie cosa che del resto avevano già fatto numerosi letterati ed oratori famosi: ma Marziale preferì fare il "poeta mendicante" anziché accusare perchè in lui l'amore del «vivere comodamente» non era più forte che quello di «vivere rettamente». All'amico Sesto domanderà: «Perché tu sei venuto a Roma? Vuoi far l'avvocato, il poeta, il cortigiano? Se tu sei un uomo onesto non potrai vivere in Roma che per un capriccio della sorte».
Nel 96 l'imperatore Domiziano veniva ucciso nel suo palazzo e il successore Nerva, come se la caduta di un principe potesse mutare la vita degli uomini, propugnò una ritrovata libertà politica ed una rinnovata moralità dei costumi: anche Marziale dovette assecondare tale idea. Aveva appena completato l'undicesimo libro degli Epigrammi ma v'era dentro una "lasciva lepidezza" ed allora offrì al nuovo principe una mirata scelta di epigrammi ricavati dagli ultimi due libri. La questione era assai complessa: Marziale aveva appena esaltato il defunto imperatore Domiziano ora adulava Nerva e faceva un triste cenno di Domiziano che aveva prima magnificato e poi aveva chiamato Traiano imperatore e senatore «il più giusto fra tutti, che dal fondo di Stige aveva riportato la verità al mondo». Era tutto vero: il buon Marziale la sapeva lunga. Ma quelle parole non erano di Marziale: erano le solite frasi ormai preconfezionate in onore del nuovo principe, erano i motivi delle nuove adulazioni consolari e senatorie che il poeta ormai ripeteva con la speranza di conservare le amicizie e i favori che gli permettevano di continuare a vivere. Da qui l'accusa di una mancanza di sincerità nell'uomo Marziale, ma fu solo per umana debolezza, per necessità di ingraziarsi i favori dell'imperatore di turno che cedette alle tentazioni: il mestiere di cliente gli era entrato nel sangue e gli rendeva facile adattarsi alle nuove situazioni senza troppa fatica.
E se pensiamo che Marziale non amò mai i potenti ci possiamo rendere conto di quanto soffrì l'ingiustizia della vita che a dispetto della sua grande arte non fu così prodiga di ricchezze da evitargli le adulazioni e gli incensamenti che distruggevano la sua dignità.
Il suo cuore ha sofferto, subito dopo l'arrivo a Roma con tante speranze, dopo la vita da poeta mendicante, dopo la conquistata fama, ma sempre si sente l'uomo dietro la parola: il poeta si considera uno come tanti, sempre in lotta per sopravvivere e resta, forte e graffiante, l'eco del suo lamento d'una realtà purtroppo scontata da sempre: «Emiliano, se sei povero, lo sarai sempre. Le ricchezze si danno soltanto ai ricchi».
 
Il grande merito di Marziale è aver capito lo spirito dei tempi e le nuove esigenze di un ambiente sociale e culturale che all'epica e alla satira, allora di moda, preferiva un genere letterario più agile e veloce quale è l'epigramma. La prova è il favore con cui venne accolto il Liber de spectaculis composto in occasione dell'inaugurazione dell'anfiteatro Fravio. Marziale era nato per l'epigramma, genere nuovo ed originale: egli era arguto, mordace, intelligente. Dotato di una sorprendente facilità di versificazione, possedeva una grande capacità di cogliere l'essenziale dei fatti, i caratteri fondamentali delle persone che animavano il suo mondo e di esprimerli in maniera breve, incisiva, fulminea ed elegante. Con saggezza non vantò mai pretese di filosofo o di moralista da quattro soldi ma aveva senza dubbio il dono dell'osservatore acuto e penetrante. Lo aiutò di sicuro la sua condizione sociale che lo vide sempre a contatto con ambienti di ogni genere e persone d'ogni classe sociale e risultò essere una efficace palestra di esperienze umane. Questo "poeta cliente" che gironzolava notte e giorno per la città imperiale e conosceva le fastosità e i freddi splendori dei palazzi e delle ville signorili; e poi nei suoi epigrammi descriveva la vita quotidiana in una città rumorosa e tumultuosa dove regnavano sudici banconi dei bottegai e schiamazzi che non lo facevano dormire nella sua modesta dimora: non sono altro che la testimonianza di una profonda conoscenza della vita che può offrire tutto e niente.
La conoscenza profonda del suo tempo, il sentimento morale che pervade diversi epigrammi, l'intuizione e la spontaneità di espressione possono essere definite le caratteristiche originali della poesia di Marziale che assumerà di volta in volta toni più o meno lirici a seconda dei temi trattati. Il suo carattere non fu certo facile nè costante, ebbe molte amicizie ma in fondo non divenne intimo di alcuno, si interessò a tutto e a tutti ma in definitiva non si legò mai ad alcuno; sospirò l'amore ma non ebbe una famiglia se non per sposarsi fittiziamente forse per interesse ed ottenere un privilegio imperiale; a Roma rimpianse la sua terra natale di Bilbili e quando vi ritornò, sognò Roma, l'unica vera ispiratrice della sua poesia.
Visse soltanto per la sua poesia e per i suoi lettori, l'unico suo bene, lector, opes nostrae, per i quali ebbe sempre una sorta di rispetto reputandoli forse gli unici in grado di offrirgli l'eterna gloria per i posteri a dispetto di Plinio che pur riconoscendogli «molto sale e fiele» aveva espressamente dubitato sul suo valore «Forse non saranno eterne le cose ch'egli scrisse»: proprio lui che lo trattò sempre, in vita e in morte, da "maggiore" a "minore", dimenticandosi di aver scritto che «nell'amicizia non esistono gerarchie».
Anche la grande Roma, così distratta, rumorosa e faccendiera, lo ignorò e Marziale visse in modo oscuro nascosto nella moltitudine, campando quasi alla giornata, sempre in attesa della buona fortuna fino a dire: «Quando mai sarò della mia giornata di nuovo padrone? Eccomi qui, nel gran gorgo della vita di Roma: in fatiche da nulla spreco il mio tempo». È vero che gli epigrammi gli diedero la fama tanto agognata ma non lo aiutarono per una vita migliore.
Fu definito poeta "pittore dei costumi" e sebbene non si fosse mai posto problemi di carattere sociale, con i suoi versi riuscì a rendere viva la società nella quale viveva: in lui prendono slancio vitale persino le figure che sarebbero a noi altrimenti ignote ma che per mezzo della mano di Marziale assumono il ruolo di simboli di un tal vizio e della tal'altra debolezza.
Perfino quando giunse a Roma la notizia della sua morte, Plinio il Giovane divulgò la tragica scomparsa non senza ricordare di avergli donato i soldi per il viaggio da Roma a Bilbili. Destino crudele che Marziale fin dal suo arrivo a Roma aveva già meravigliosamente previsto.
Solo i numerosi lettori gli permisero di coronare il suo sogno e Marziale meritò tale fiducia: tutta Roma leggeva i suoi epigrammi. Marziale aveva creato un'arte epigrammatica personalissima che poi ha avuto fortuna nei secoli: la tecnica armoniosa del verso, la limpidezza dello stile, la particolarità strutturale catulliana della chiusa del carme con lo stesso verso iniziale, arte elaborata persino nei particolari, perfetta nei toni stilistici, aliena dalla retorica: i suoi epigrammi sono classicamente perfetti eppure danno tutti il senso dell'immediatezza e dell'improvvisazione. Marziale è dunque un "classico" nell'equilibrio della forma e del contenuto e la sua tecnica compositiva è assai personale: assai varia a seconda della natura e dell'ampiezza del componimento che a volte si apre con una selva di idee che illustrano quella principale posta alla fine, altre volte dopo un giro di pensieri "vaghi ed indistinti" che tengono il lettore sulle spine ecco che erompe improvvisa ed arguta la battuta finale, l'aliquid luminis, il guizzo finale, che illumina il contenuto del carme.
Marziale creò la sua arte epigrammatica da gran maestro, e già tra i contemporanei i suoi versi andavano a ruba. La sua tecnica fu imitata da molti e tutti gli scrittori di epigrammi che seguirono si sono avvicinati a Marziale per tentare di farne rivivere lo stile, lo spirito, la spontaneità, la penetrante fulmineità e l'ingegnosa mordacità.
Quando il suo nome e la sua arte erano ormai famosi, i suoi libri erano tra le mani di tutti, e Marziale così scriveva rivolgendosi a Gauro: «Io faccio delle figurine di vita: tu, che sei grande, fai un colosso di fango. La mia pagina conosce l'uomo. Io spargo di sale romano i lepidi libretti e la vita umana legga e riconosca in essi il proprio costume. Non importa che i tuoi canti siano modulati sulla zampogna, purché la tua zampogna vinca la tromba di tanti altri».
La sua sogghignante malinconia, la fantasiosa varietà nel motteggio, la satira, la caricatura e il suo umorismo che fu derisione ed avversione esaltarono la sua capacità di colpire tutto e tutti: e agli invidiosi che lo facevano oggetto dei loro strali che crepassero pure d'invidia.
 
«Schiatta d'invidia quel tale perchè tutta Roma mi legge.
Schiatta d'invidia perchè sono segnato a dito dalla folla.
Schiatta d'invidia perchè Tito e Domiziano mi hanno concesso privilegi e favori.
Schiatta d'invidia perchè ho un piccolo podere fuori città e una casa modesta a Roma.
Schiatta d'invidia perchè sono circondato da amici e invitato a cena.
Schiatta d'invidia perchè sono amato ed ho successo.
Schiatti pure chi crepa d'invidia!»
 
E poi, diciamo la verità, a certa gente che si poteva dire? Ad essere sinceri solo ciò che diceva il buon Marziale a Sabido: «Non ti posso soffrire e non so dirti perchè. Posso dirti solo questo: mi sei antipatico».
Marziale consacrò l'epigramma, lo elevò al di sopra dei prodotti d'occasione nei quali si nascondeva, e ne deputò il trionfo: quel componimento lirico che variava per contenuto ed estensione, da due a oltre cinquanta versi, così arguto, incisivo, mordace, immediato, caratterizzò con l'epica e la satira, le tendenze culturali e spirituali dell'epoca. E lui ne fu un artefice e un maestro insuperabile. Scrisse come se le sue cose dovessero rimanere per sempre. E per sempre rimasero.
 

Massimo Barile


Per leggere alcuni testi di Marco Valerio Marziale

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