Inediti On line
 
 Marisa Starace

presenta la sua opera inedita

Impronta di donna
(romanzo)

INDICE DEI RACCONTI


Storia di Mara
IMPRONTA DI DONNA
 
In ricordo di Ugo di Fazzi, Maria Annovazzi, e mia zia Augusta Colucci e a tutti i Civitavecchiesi che morirono - nel bombardamento del 14 di maggio del 1943.
 
 
Storia di Mara
 
 
Il 14 di maggio del 1943 fu solo un giorno in più nella vita della maggior parte dell'umanità, una data ed un'ora che passarono inavvertite per la maggior parte della gente che abita questo pianeta. Non cosi per Mara e ancor meno per alcuni suoi concittadini. Sono passate già due generazioni. Quel giorno molti morirono nella cittadina natale di Mara. Altri riuscirono a salvarsi per morire più tardi anche se di una morte differente, a seconda dei casi: il tempo sempre leale s'incaricò di livellare la vita e la morte per i sopravvissuti o almeno alcuni di essi.
Tutte le mattine, brillasse il sole o non importa quanto piovesse, Mara si alzava senza protestare regolarmente alle 4.30 e camminando andava alla stazione ferroviaria per prender un trenino che la portava, dalla cittadina marittima dov'era nata, a scuola a Roma. Ci si trovava nel pieno sviluppo della seconda guerra mondiale. La seconda ed ultima. Ultima, naturalmente, è solo un modo di dire.
Dato che in quei tempi così duri era obbligatorio l'oscuramento, Mara si era abituata a muoversi nell'oscurità come un gatto, poiché era già più di un anno che viveva in quel modo. Frequentava allora il secondo anno del liceo scientifico Cavour. Però le piaceva uscire nella fredda notte in strada, a lei era famigliare come le sue tasche. A volte era illuminata da una luna traditrice, altre volte si distingueva appena grazie alle stelle. La elettrizzava percorrere il viale che si stendeva per tutto il tragitto di fronte al mare. Particolarmente quando il mare inquieto sembrava impazzare contro l'antemurale e la costa. Camminare nella nebbia che la circondava, le dava l'illusione di volare in una nube. Sognava che il vento la portasse via, la trascinasse verso l'ignoto. La sua immaginazione non aveva limiti. E nemmeno il suo romanticismo.
I pochi anni di Mara, una ragazza della generazione che ha vissuto l'ultima guerra mondiale dai tredici anni fino ai diciotto anni, si alimentavano principalmente di sogni e di molto sentimentalismo, come forse oggi non è più possibile. O per lo meno non è più tanto comune. Per quello che Mara ricorda era stata sempre innamorata. Anche se sempre unilateralmente. Lei amava, però il soggetto dei suoi pensieri generalmente non lo sapeva o, se veniva a saperlo, non la prendeva sul serio. E non è che fosse brutta. Però un poco tonta forse sì. Mara lo ammette con buona autocritica. Le sue letture preferite erano a quell'epoca, niente più e niente meno, Buffalo Bill che si pubblicava in fascicoli, Nick Carter, Fantomas, novelle poliziesche, come quelle di Agata Christie e altre simili. Un tipo di letteratura che contrastava decisamente con il suo stato perenne d'innamorata cronica.
Mistero della psiche umana.
Mara aveva avuto una infanzia felice e stava vivendo un'adolescenza tranquilla nonostante la guerra. Naturalmente si sentiva incompresa come qualsiasi adolescente che si rispetti. Soffriva tutti i patimenti e le esaltazioni che possono invadere e perseguitare lo spirito e la mente di una giovinetta senza esperienza. Passava delle ore dietro le persiane socchiuse della sua casa, spiando il passaggio del ragazzo che la interessava . Che voleva da lui ? Sinceramente non lo sapeva: solo si tormentava e si soddisfaceva solo a guardarlo, senza mai passarle per la testa cosa avrebbe fatto con lui, se per caso, avesse corrisposto le sue intenzioni.
Erano i suoi sogni amorfi, vaghi ed eterei come bolle di sapone. Però stavano lì e a volte facevano male.
Suo padre, un uomo previdente, però non chiaroveggente, decise che Mara e sua sorella maggiore Nenné dormissero a Roma, in casa di amici. Dovevano tornare a casa all'ora di pranzo per cambiarsi i vestiti e poi fare ritorno a Roma sul far della notte. Il papà di Mara era sicuro che se avessero voluto bombardare la cittadina dove vivevano, lo avrebbero senza dubbio fatto di notte. Effettivamente la minaccia di un bombardamento poteva concretarsi in qualsiasi momento, dato che con il buon esito dello sbarco degli Alleati in Sicilia, il fronte si era avvicinato pericolosamente a Roma e pertanto a Civitavecchia.
Gli aeroplani arrivarono invece nelle prime ore del pomeriggio. Esattamente alle ore 15.10.
Mara era arrivata con il treno che entrava in stazione alle ore 14.15 e dopo un rapido pranzo , si era spogliata e riposava nel suo letto. La primavera avanzava e il caldo invadeva ogni angolo.
In un primo momento fu un rumore compatto, come se un esercito di cavallette volassero tutte unite sopra un fronte ampio, come tutta la parete della stanza , poi un fischio acuto come un grido disperato e lacerante: allarme aereo. S'incontrarono tutti nel corridoio della casa: suo padre portava nella mano una valigetta che aveva sempre pronta al lato del suo letto e che conteneva un po' di denaro ed alcuni oggetti d'oro della famiglia. Sua madre che aveva appena finito di pulire la cucina con lo "straccio" per asciugare i piatti ben stretto nella mano; la sorella che stava dando lezioni di latino ad una ragazza che si preparava per dare esami perché si avvicinava giugno. E poi Mara che era rimasta in sottoveste. Sua madre istintivamente le tirò addosso un suo cappotto che era appeso all'attaccapanni. Il padre le spinse giù dal secondo piano fino al rifugio che era situato nella cantina dell'edificio. Si trattava di un palazzo di cinque piani che s'innalzava con aria di sfida proprio vicino al porto, da dove partivano quasi tutti i giorni navi piene di soldati e munizioni. Se la sfida fosse stata accettata dagli aeroplani che sorvolavano la cittadina tirando bombe come fossero caramelle, sicuramente nessuno di loro si sarebbe salvato. Sarebbero morti tutti come topi sotto le macerie. Il destino non volle così. Si trattava, in ogni modo, dell'unico rifugio disponibile e così s'incontrarono con gli altri inquilini. C'erano tutti. Mara, grazie alla sua giovane età, con la sua assoluta mancanza d'esperienza del dolore e della morte, non si rendeva conto del pericolo che li circondava da tutti i lati. E fu un bene che fosse così, perché il preoccuparsi e lo spaventarsi non l'avrebbero certamente aiutata a superare o a cancellare la realtà che le toccava vivere. Si poteva soltanto sperare. E pregare.
I rumori si succedevano ora forti, ora fortissimi, in un continuo crescendo, ora lontani e profondi, ora tanto vicini che il palazzo era scosso dalle fondamenta. Le persone, mano a mano che passava il tempo, si erano fatte più silenziose. Sembrava che avessero perduto la voglia di parlare e fare commenti.
Al nervosismo iniziale, che aveva fatto sì che tutti parlassero in continuazione per dire ognuno la propria opinione su ciò che stava succedendo fuori, si sovrappose il silenzio. Ognuno secondo la propria reazione aveva cercato di superare in questo modo la paura che lo avvolgeva. Calò il silenzio. Profondo e assoluto, come la morte. La terra sembrava soffrire attacchi di "delirium tremens", però il vecchio edificio resisteva. Improvvisamente si aprì la porta della cantina e nell'entrata scura apparve un ragazzo. Non poteva avere più di 14 anni. Aveva il volto e le mani coperte di sangue. Incoerentemente le parole gli uscirono dalla bocca che tremava, come le pallottole di un mitragliatore: "Morti... ci sono tanti morti... tutti morti...". La voce si spense in un grido soffocato. Nessuno si mosse. Nessuno parlò. Mara era rimasta immobile. Non poteva immaginare la distruzione che si era abbattuta sopra la sua cittadina. Né il dolore e l'angoscia che l'aspettavano fuori. Lì tra le quattro pareti, anche se si trattava di una cantina fetida e sudicia, si sentiva quasi sicura. Fino a quando si aprì nuovamente la porta della cantina ed entrò un uomo gridando: "Fuori, tutti fuori... veloci, allontanatevi più che potete prima che scoppi la Santa Barbara... C'è una nave piena di munizioni in fiamme nel porto. Può esplodere in qualsiasi momento. Non c'è un instante da perdere...". Tutti si precipitarono fuori. Mara ricorda che nonostante il pericolo imminente che minacciava tutti, non ci furono scene di panico né spinte. Tutti corsero come sonnambuli per quelle stesse strade che solo pochi minuti prima presentavano l'aria tranquilla e un po' sonnolenta di qualsiasi strada di provincia in un pomeriggio afoso.
Ora dovunque c'erano cumuli di terra e pietre. Dove c'erano stati edifici alti e popolati, ora non c'erano che buche profonde come laghi secchi, strade completamente cancellate, piazze che erano sorte dal niente come per magia. Sembrava come se una ruspa impazzita avesse cercato di disegnare un paesaggio futurista. Tutti correvano nella stessa direzione. Cercavano di allontanarsi dalle zone vicine al porto e si affrettavano verso il convento dei Cappuccini situato fuori dalla città.
Nessuno vedeva o pensava, in quel momento cruciale, ai feriti, ai morti o ai sepolti vivi sotto le macerie. Anche Mara correva cercando di evitare di cadere dentro le buche e aggirando le barriere che si erano formate in conseguenza della caduta delle case. Tutto le risultava irreale, come se si muovesse in un incubo. Correva in un luogo che improvvisamente le era diventato estraneo. Non lo sapeva ma quel giorno terminava una tappa della sua vita. Lasciava dietro di sé l'infanzia e parte dell'adolescenza e si affacciava alla vita degli adulti.
Mara e la sua famiglia trovarono rifugio per quella notte in casa di amici. I Pontani erano gente molto buona, che viveva nei dintorni della città, proprio vicino al monastero dei Cappuccini. Lì aspettarono. La "Santa Barbara" non esplose. Il fuoco fu spento in tempo. Si salvarono così gli edifici non danneggiati come quello nel quale viveva Mara ed anche altri che erano danneggiati ma che erano rimasti in piedi.
Si cominciò a scavare per portare aiuto a coloro che erano rimasti sotto montagne di macerie.
Quando si fece notte, la madre, la sorella e Mara decisero di tornare a casa per cercare di salvare alcune cose che erano indispensabili. Tra l'altro, Mara sotto il cappotto di sua madre, indossava soltanto una sottoveste e aveva bisogno urgente di un vestito. Volevano inoltre cercare di portare via tutto ciò che potevano, nel timore di un secondo attacco aereo.
Nella città non si udiva altro che il rumore delle pale e il lamento sporadico di alcuni gatti e cani spaventati o affamati. Non si udiva voce umana. Nonostante l'oscuramento vigente alcuni riflettori illuminavano i posti dove si stava scavando. Tutti erano animati dalla speranza di poter trovare qualcuno ancora in vita.
Le tre donne camminavano in silenzio, ciascuna assorta nei propri pensieri, portando nella mente la pesante confusione degli avvenimenti, cercando di capacitarsi del momento difficile che stavano vivendo, addolorate e afflitte per la presenza della morte che le circondava da ogni lato.
Nella più profonda oscurità salirono per le scale fino al secondo piano. La porta della casa era aperta: il padre nella fretta di scendere nel rifugio aveva dimenticato di chiuderla. Le tre donne furono ciascuna nella propria stanza. I lunghi capelli di Mara, accovacciata nel mezzo dell'abitazione, illuminati per la luce mistica della vela, fluttuarono pericolosamente verso la fiamma... Mara pensava che le sarebbe piaciuto essere la Dea Visnù, per poter portare via con sé tutte quelle cose alle quali era attaccata sentimentalmente e senza le quali non avrebbe potuto continuare a vivere: i suoi libri, i suoi orsi e alcuni souvenir, tutti testimoni della sua evoluzione come essere umano. Quando mezz'ora più tardi s'incontrarono di nuovo nella strada, Mara portava in una mano un suo vecchio orso, il suo preferito, le cui zampette spuntavano teneramente da un sacchetto di carta e le sue due grammatiche, quella di tedesco e quella d'inglese, sotto il braccio. L'altra mano stringeva una scatolina a strisce rosse e gialle, che conteneva le ceneri di alcune gardenie, fiori che le aveva regalato un ragazzo del quale Mara era innamorata. Di lui non si dimenticò mai. Il suo primo amore. E la sua prima disillusione.
La mattina seguente Mara inforcò la sua bicicletta e partì in salita (una salita di circa 25 chilometri) in direzione di un paesino chiamato Tolfa, situato in montagna , dove sua nonna si era già trasferita con una parte dei mobili. Il padre di Mara aveva avuto buon fiuto quando aveva deciso, qualche tempo prima del bombardamento, di affittare un'abitazione in una casa di alcuni contadini, i Fracassa, che risultarono essere persone molto brave, oneste e buoni amici. Lui, la madre e la sorella seguirono più tardi con il resto dei mobili. Si era già alla metà di maggio e il caldo si faceva ogni giorno più forte. Mara pedalava in salita con tutto il vigore dei suoi anni. Quasi le piaceva stancarsi. La stanchezza la elettrizzava e la faceva sentire paradossalmente più leggera e rapida. Curva dopo curva, salendo sempre più in alto, mentre la sua cara città splendeva sulla sponda del mare illuminata da un sole brillante ed indifferente al dolore umano. E in lontananza, sembrava intatta come se non fosse successo niente, né le bombe, né i morti, né le case abbandonate, né i sogni perduti...
Quando finalmente arrivò, stanca e con la faccia rossa per lo sforzo e per il sole che l'aveva accompagnata chilometro dopo chilometro fino alla cima, sua nonna l'abbracciò piangendo.
La povera donna non aveva avuto notizie ed aveva temuto di essere rimasta sola al mondo con la sola compagnia della gatta Beatrice. La sua cara, carissima "Nonna Gianna", tanto allegra, intelligente, moderna, capace di fare qualsiasi cosa con le sue mani abili. Mara le volle un gran bene. Un bene dell'anima.
Rimasero in quel paese, che sembrava attaccato alla montagna, dal maggio del '43 al settembre del '44. Mara ricorda: stradine strette, arcaiche, salite e discese scoscese e a sbalzi, incontri giornalieri con i contadini locali dalla faccia senza età, muli, asini, cavalli e una perenne aria di festa nonostante la guerra e le privazioni.
La fila per l'acqua che sgorgava da una fonte, nel freddo intenso dell'inverno, con le mani e la faccia violacee. Poi l'arrampicarsi per la salita con la brocca in bilico sopra la testa secondo il costume locale, oscillando sui fianchi e facendo pressione sopra le cosce per tenersi in equilibrio mentre i polpacci si stendevano nello sforzo e le vene del collo sembravano scoppiare.
Il padre e la madre di Mara dormivano in un lettino vicino all'unica finestra. Nel letto matrimoniale dormivano invece la nonna, la sorella, Mara e la gatta Beatrice. La finestra dell'abitazione era allo stesso livello del campanile della cattedrale, la cui campana tutte le sante mattine presto, con il suo suono faceva infuriare il padre di Mara con conseguente reazione da parte sua.
La casa che era come incollata a una rocca, una rocca enorme, ben alta sopra tutto il resto del paese. Si apriva sopra un sentiero che serpeggiava in salita fino alle rovine di un vecchio castello. Il castello dei Frangipani, vecchi feudatari del paese. Lassù in cima si ergeva una piccola chiesa, che aveva l'incanto di tutte le chiese del campo, nella sua semplicità e nel profumo che salendo dalla campagna circostante la Rocca, la penetrava tutta.
Dal castello, che si alzava sopra il punto più alto della Rocca, lo sguardo scivolava da un lato verso le casette vecchie e ammucchiate una contro l'altra secondo il costume feudale, come per cercare protezione fra di loro, mentre dall'altro lato spaziava giù verso la valle verde di prato, piante e alberi. Attraversandoli si snodava il cammino che conduceva a Roma e ad altri paesi limitrofi. L'aria lassù sembrava più pura e tersa anche se per tutto il sentiero che conduceva al vecchio castello, o meglio a ciò che rimaneva del castello, era facile incontrare maiali e galline che scorazzavano liberi e apparentemente soddisfatti della loro piccola e precaria esistenza.
Mara saliva lassù tutti i giorni: trovava lo spazio vitale che le mancava nella stanza che divideva con i suoi perché nonostante fosse molto grande traboccava di mobili accatastati.
Sentiva imperiosa la necessità d'essere sola. Apprezzava come bene prezioso e insostituibile la solitudine. Lassù respirava, libera dai pensieri quotidiani e dai problemi degli altri. Portava sempre con sé un libro o una delle sue preziose grammatiche, però quasi mai le apriva. Rimaneva con lo sguardo perduto nella valle, senza pensare e lasciandosi trasportare dalla sua fantasia, e finiva a volte per identificarsi con la natura che la circondava e che da lì sembrava come il riflesso di un sogno. Ora era un fiore, ora una foglia, una pietra o il vento... E la guerra non esisteva, era lontana, come se lei avesse vissuto sempre così, come in quel momento della sua vita. E il passato vicino e doloroso era cancellato, come se non avessero mai bombardato la sua città. Come se il mondo non si stesse ritorcendo sotto il peso di problemi la cui origine si era perduta nel rumore assordante delle bombe e del cannone.
Perché si stava lottando? Perché si stava morendo? Perché la sofferenza inumana, le mutilazioni fisiche e psichiche, le privazioni orribili, il furore e la morte spaventosa?
Mara non si rendeva conto, però a lei, la guerra le sarebbe servita per trovare una soluzione ai suoi complessi, per risolvere quasi tutti i suoi problemi, conoscere gente e nuovi concetti, sperimentare fatti e sentimenti particolari. Tutte situazioni che, in circostanze normali, non avrebbe mai avuto l'opportunità di vivere. E soprattutto comprendere che nessuno a questo mondo è imprescindibile e che siamo tutti importanti. Insomma per maturare.
 
Durante l'anno e mezzo che Mara visse in montagna, l'Italia fu testimone di due grandi avvenimenti che furono determinanti per lo sviluppo del suo carattere: l'accordo che il suo Paese firmò con gli Alleati l'8 di settembre del 1943, che mise fine allo stato di belligeranza con l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America e l'inizio della occupazione del territorio nazionale da parte dei tedeschi come reazione naturale da parte di chi si considerò tradito. In ogni modo i tedeschi erano già in Italia e non se ne sarebbero andati facilmente. I Tedeschi imposero la dura legge della loro guerra. Un altro giorno importante fu l'arrivo degli Alleati a Roma il 4 di giugno del 1944. Questi avvenimenti furono vissuti da Mara anche se non comprese completamente l'importanza degli eventi e pur tuttavia furono nella sua vita come l'effetto di una pietra tirata in un mare con acqua calma. Mara solo molto più tardi cominciò ad avere alcune idee chiare riguardo alcuni fatti, certe relazioni umane ed altri vari aspetti della vita. Ancora oggi ci sono situazioni che la sorprendono in buona fede. Effettivamente la vita è una cornucopia di continui stupori e Mara crede che non importa l'età, perché c'è sempre qualcosa che ci prende di soprassalto e ci lascia perplessi. I tedeschi, per esempio, Mara li apprezza come d'altra parte apprezza i Nordamericani, gli Inglesi, i Russi, gli Ebrei e gli Arabi... Con i difetti e le virtù che essi possono avere. Per quanto le è possibile non ha mai cercato di generalizzare e allo stesso tempo di non giudicare ciò che una minoranza di persone può provocare trascinando con sé il resto di un paese. Mara pensa che l'umanità si divida in onesti con sé stessi e con gli altri e in disonesti soprattutto con gli altri. Pertanto tra un italiano fasullo e perverso ed uno straniero buono e generoso, preferisce naturalmente lo straniero anche se naturalmente è ben felice di essere nata in Italia.
Però, mano a mano che invecchia, si rende conto di quanto è pericoloso essere eccessivamente nazionalista. Lo sciovinismo è per lei una parola da cancellare dal vocabolario. Anche se, a volte, e particolarmente nel caso di popoli giovani, può essere necessario e vitale come sprone per migliorare o difendersi. Imparò ad odiare il razzismo sotto qualsiasi aspetto si presenti e a non fare nessuna distinzione di nazionalità, razza, religione e ancor meno del colore della pelle. Le risultò chiaro che tutti nasciamo nello stesso modo, cresciamo, procreiamo e muoriamo nella stessa maniera. E allora dov'è la differenza?
 
Alcuni uomini sono più intelligenti e hanno maggiori possibilità e probabilità di sviluppare la loro formazione come esseri umani, altri invece sono meno fortunati e meno dotati e quindi sono condannati a non progredire per tutta la vita. A meno che qualcuno di buon cuore non gli dia una mano affinché possano risalire dal pozzo profondo nel quale si trovano.
In un primo momento la politica fu, secondo Mara, un succedersi di suoni che si trasformano in parole rumorose e non sempre in fatti concreti. Però non c'è dubbio che l'uomo è un animale politico. Nel momento stesso in cui comincia a pensare, a parlare ed esprimere un'idea o un'opinione, fa politica. » indubbio, piaccia o no agli apolitici. Naturalmente ci sono governi pessimi e governi discreti. » necessario, importante e vitale, sapere scegliere il male minore anche se, di solito, ciò che è buono per un governo è male per l'altro. Il motto di Mara è: "Sic transit gloria mundi". Queste parole esprimono bene come vede il tempo che passa implacabile: l'unica realtà di questo mondo. Guardando ai secoli passati (che bello sarebbe se la storia servisse a questi pazzi uomini per imparare a vivere in un modo più intelligente e razionale!), Mara fa progetti per il futuro e allora il presente sembra quasi ingenuo e puerile. Potrebbe perfino riderne se non fosse tutto così tragico, pieno di dolore, sangue e lacrime. Si rende conto che è necessario (ma lo è veramente?) che le diverse visioni combattano tra loro per il fatto che gli interessi in gioco sono vitali per gli uni e per gli altri. Tutto ciò accade sempre per l'egoismo, la violenza e la sete di potere che sembra divorare gli uomini. La lotta deve continuare. "The show must go on". Soltanto vorrebbe che gli abitanti di questo bellissimo pianeta non fossero tanto bellicosi e che potessero trovare una maniera intelligente per mettersi d'accordo, nonostante l'egoismo, la violenza e la continua prepotenza che sembrano essere l'essenza stessa della quale è composto l'Uomo. Ah, se solo fosse possibile!
 
Come conseguenza dell'esodo dei civitavecchiesi e probabilmente per la mancanza di sufficienti servizi sanitari nonché per il fatto che la popolazione di Tolfa si era triplicata dalla notte alla mattina, nell'autunno del '43 scoppiò una epidemia di tifo nel paese. Cominciarono a morire molte persone e l'unico ospedale del luogo si riempì d'infermi. Il comando tedesco impose allora la quarantena. Non si poteva né uscire, né entrare nel paese.
"Mamma, se papà deve andare a Roma, avrà bisogno senza dubbio di un permesso speciale da parte dei Tedeschi. Ti prego lascia che vada io a chiederglielo, lascia che gli spieghi e cerchi di convincere i tedeschi dell'importanza che papà possa viaggiare..." "Mai e poi mai! Ma sei pazza? Vuoi proprio andare nella tana del lupo? Una bambina come te... papà cercherà di ottenere il permesso lui stesso e, se non ci riesce, allora non andrà a Roma... pazienza...". Così parlò la madre di Mara. Però lei aveva un'altra opinione.
Si presentò al Comando. Spiegò nel suo tedesco elementare da seconda liceo scientifico ma, nonostante tutto, abbastanza corretto ciò che desiderava. Lo ottenne. La misero immediatamente a lavorare. Era necessario tradurre alcune regole in italiano affinché tutta la popolazione sapesse come rispettare alcune norme igieniche. Era notte, pioveva e non si vedeva neanche un'anima in giro per le strade a causa del vigente coprifuoco. Eravamo in piena guerra e il governo Badoglio aveva firmato un patto di pace separata con gli Alleati e ciò faceva dei tedeschi il nuovo nemico. Mara fece finalmente ritorno a casa, accompagnata da un soldato tedesco, un interprete ufficiale del Comando, nativo di Bolzano, il quale aveva scortato Mara coprendola con un grande ombrello.
La madre di Mara era fuori della grazia di Dio e già aveva dato la figlia per morta o nel migliore dei casi rapita chissà da chi... Vedendola sana e salva non poté che abbracciarla fortemente e non le scappò una sola parola di rimprovero.
Da quel giorno Mara dovette recarsi tutti i giorni al Comando per lavorare in ufficio e scrivere a macchina i testi, anche se a velocità ridotta. Fu un obbligo che Mara accettò sinceramente e quasi con piacere. Fu il suo primo lavoro. Non ricorda ciò che le davano da scrivere perché, naturalmente, copiava senza comprendere, scrivendo cose che per lei non significavano niente e in una lingua che non era la sua. Tuttavia fu la prima base per una vita che attraverso il lavoro le avrebbe dato la possibilità di ottenere alcune soddisfazioni ed una esistenza degna. Obiettivi che non avrebbe potuto conseguire in altro modo perché proveniva da una famiglia onesta e piccolo borghese, ma certamente non ricca né socialmente elevata ed importante. Per Mara, nata e cresciuta sotto il regime fascista, la patria era evidentemente con i fascisti ed i tedeschi. La sua famiglia era gente buona però di poca cultura e apolitica. Cosa conosceva lei della Resistenza, della libertà di opinione e d'espressione? A lei non era mai passato per la testa che fuori degli stretti confini della sua terra ci fossero altri paesi benedetti da Dio con gente buona che parlava un'altra lingua ma non per questo meno rispettabile ed umana. Mara in quel periodo era una piccola fanatica. Se l'Italia avesse vinto la guerra sarebbe forse diventata tutt'altro tipo di donna. Quasi sicuramente una persona che d'umano non avrebbe avuto molto.
 
La piazza del paese. Un pianoforte verticale nel mezzo della piazza senza gente. Una piazza che per Mara sembrava enorme. E forse lo era. Un tedesco biondo, di mezza statura e dalla faccia simpatica, in piedi nel centro della piazza vuota, suonava il pianoforte. Mara non seppe mai a chi appartenesse. Si chiamava Wolfgang Hildbrandt e proveniva da Berlino. Però del prussiano, così come un italiano immagina che dovrebbe essere, aspetto militare fino al midollo e duro nei tratti, Wolfgang non aveva proprio nulla. Era un tipo allegro e decisamente piacevole. Diceva: "Schade, dass Du nur ein Kind bist" (Peccato che tu sia solo una bambina).
E Mara era veramente molto ingenua, per non dire tonta.
Wolf morì poco dopo in una imboscata in un paese del Lazio.
Joseph Kai era viennese ed era un uomo molto bello. Scuro di carnagione e con grandi occhi azzurri. Era un vero soldato. Diceva: "Ich bin stolz, dass ich ein Deutscher bin"
(Sono orgoglioso di essere tedesco). E con questo dava un calcio all'Austria e alla sua indipendenza. Per Mara, che non aveva ancora sedici anni, lui era un Dio. Anche per lui Mara non era che una bambina. "Du hast langes Haar und ein kurzes Gehirn" (Hai capelli lunghi e cervello corto).
Non era certamente un complimento però Mara ne rideva con lui. Joseph si lanciò con uno squadrone di paracadutisti sopra l'isola di Leri nell'Egeo dove forse trovò la morte. Mara fu una vigliacca quando anni più tardi, trovandosi a Vienna per una breve visita, consultando la guida telefonica si accorse che esisteva una famiglia di nome Kai, ma non ebbe il coraggio di telefonare per sapere... Era vivo? Era tornato a casa dopo la fine della guerra? Preferì ignorarlo. Per continuare ad immaginarlo di nuovo con la sua famiglia, vivo e felice.
Mara si domanda ancora oggi, dopo tanti anni, come fu possibile che quegli stessi uomini che conobbe, rigidi nelle consegne però intelligenti e sensibili alle cose belle, alla musica, agli animali, altri buoni padri di famiglia, poterono sottomettere i prigionieri di guerra a tanti tormenti e soprusi e soprattutto macchiarsi dell'infamia della persecuzione orribile, spaventosa e disumana contro gli ebrei... Per Mara ancora adolescente un ebreo era un uomo come qualsiasi altro. Quando sparì Don Vittorio che aveva quattro figli, tutti amici di Mara e della sua famiglia, lei non lo seppe. Lo portarono in Germania e non tornò mai più dal campo di concentramento dove lo avevano trascinato. Venne a conoscenza molto più tardi della triste storia di un uomo buono che dovette vivere sulla propria pelle la barbarie scatenata contro il suo popolo. E lui fu solo uno fra i tanti. Cominciò a rendersi conto che i problemi delle relazioni tra gli esseri umani non erano solo quelli degli innamoramenti unilaterali, quando era già una donna e non più una bambina che correva dietro a sogni quasi sempre irraggiungibili. E bisogna aggiungere che Mara non fu certamente una bimba precoce.
Mara adesso sa che i tedeschi non furono né i primi né gli unici che perseguirono il popolo ebreo.
…sufficiente sfogliare un qualsiasi libro di storia per mettere in evidenza che molte furono le occasioni quando paesi, cattolici e non, nascosero le proprie malversazioni incolpando gli ebrei e scatenando persecuzioni contro tanta povera gente inerme e innocente.
Che tutti ricordino e che nessuno dimentichi.
 
Quando Mara cominciò a percepire che il mondo nel quale viveva aveva aspetti e verità sconosciute, crudeli e devastanti? Quando le esperienze per mezzo di un libro o di una chiacchiera con un amico o guardando un film le aprirono gli occhi e le fecero cominciare a vibrare le piccole cellule grigie? Sono passati molti anni e Mara quasi non riesce a mettere a fuoco le immagini dei suoi ricordi. Le costa rivivere quei momenti e porsi nel momento nel quale la realtà cominciò a venire alla luce nel suo piccolo mondo. Fu piano piano, come un sospetto che si insinuava lentamente dentro la sua mente o forse fu come un fulmine caduto dal mondo della conoscenza che ancora non le si era rivelato in tutta la sua totalità e complessità.
Qualsiasi fosse l'origine di questa nuova coscienza, passarono molti giorni e molti avvenimenti successero, uno dopo l'altro, con il peso delle nuove scoperte e con il loro carico di amarezze. Nonostante si trattasse di fatti e avvenimenti che non avevano una relazione diretta con lei, ogni volta era come se le conficcavano un pugnale nel cuore. Mara ricorda la processione del venerdì santo che si svolge ogni anno nella sua città natale. Ricorda che tra le varie statue, portate devotamente sopra le spalle da uomini forti, ce n'è una che rappresenta la Madre Dolorosa, vestita tutta di nero, con uno sguardo tristissimo e con molti pugnali che le trapassano il cuore. Non credo che per i cattolici possa suonare come una blasfemia che lei si identifichi con la madre di Cristo perché ogni creatura può provare lo stesso sentimento di Maria. A mano a mano che si fanno esperienze dirette o indirette si dipana la nostra vita attraverso il dolore e il sacrificio, la rinuncia o la perdita di persone care. La morte degli ideali e della fiducia nell'uomo sparisce, schiacciata dall'ipocrisia e della cattiveria. Senza anestesia.
Se i tedeschi le avevano aperto una finestra sulla vita, i nordamericani le spalancarono la porta direttamente. Mara non fece che affacciarsi sulla strada e tutto il mondo le sfilò davanti.
Nonostante la sua giovane età capì che tutto o quasi tutto ciò che le avevano insegnato sotto l'"ancien regime", non era totalmente valido e apprese anche che una persona deve fare le proprie esperienze e cercare di distinguere nei limiti umani possibili e il più obiettivamente, ciò che è giusto e ciò che è accettabile.
Mara non aveva atteso l'arrivo degli Alleati. Per lei erano gli altri, quelli contro i quali il suo paese aveva lottato. Anche se, onestamente, non aveva capito molto chiaramente perché essi rappresentavano il nemico. Quando arrivò trafelato un uomo sulla piazza gridando che stavano arrivando gli Americani e che già si erano avvistate le prime jeep inerpicarsi per la salita lungo la strada che da Roma conduceva al paese, Mara decise semplicemente di andare a passare il giorno nel campo con alcune amiche. L'estate era ormai alle porte e faceva già molto caldo. Le giovani ragazze trascorsero tutto il pomeriggio nella solitudine della campagna e quando tornarono in paese quasi non lo riconobbero. C'erano jeep dappertutto. Era un tipo di macchina che non si era mai vista prima. E poi c'erano soldati che bevevano vino e parlavano amichevolmente con i locali, Dio solo sa in quale lingua. Nel frattempo proseguiva a ritmo incessante il passaggio delle macchine da guerra che transitavano dal paese per portarsi verso la costa.
Mara lanciava sguardi di soppiatto verso i nuovi arrivati e si meravigliava che avessero un aspetto umano. E in verità abbastanza gradevole.
Dall'alto dei loro carri armati i soldati nordamericani tiravano alla gente che li applaudiva, gomme da masticare, sigarette, cioccolate, caramelle. La gente s'inchinava per raccogliere tutto quel ben di Dio. Mara passeggiava con il naso in alto, ignorando completamente tutto quello che la circondava, ostentando la massima indifferenza. Era povera però orgogliosa e non pensava neanche per un momento di curvarsi davanti a loro per raccogliere caramelle. Si sentiva ferita ed era furiosa con la gente che vedeva litigare per impossessarsi di cose che, a dir la verità, non si vedevano già da molto tempo.
Rumore di voci eterogenee, grida, pianti, molte risate e molto vino: questo significò l'arrivo degli Alleati in quell'angolo d'Italia. Mentre per Mara stava per terminare un'altra tappa del suo sviluppo e già cominciava una nuova epoca di scoperte nelle relazioni tra gli esseri umani.
I nordamericani furono per Mara come la scoperta di un nuovo pianeta. Fu quell'anno, il 1944, l'anno della continua sorpresa e stupore. E una volta ancora il mondo venne fino a lei. La cercarono perché lavorasse con le truppe nordamericane nella sua città nativa, Civitavecchia. Mara ricorda la jeep militare arrampicarsi quasi fino a casa sua sulla montagna (era veramente una macchina miracolosa che apparentemente non conosceva nessuno ostacolo) e il sergente che venne a parlarle con l'aiuto di un interprete di nazionalità sospetta. Non ricorda ciò che si dissero. Tuttavia nonostante confessò di aver lavorato, volente o nolente, con i Tedeschi, non ci fu niente da fare. E così, il giorno seguente, accompagnata da suo padre, salì su un camion militare che la portò di nuovo nella sua città dove si trovavano accampati tutti gli alleati, militari di qualsiasi parte del mondo. Si presentò davanti ad un medico nordamericano, il Maggiore T., il quale aveva bisogno di qualcuno che prendesse nota delle chiamate telefoniche quando lui non era presente nell'ufficio. Mara aveva in quell'epoca una conoscenza molto superficiale e puramente scolastica della lingua inglese inoltre non si riteneva all'altezza di lavorare né con il Maggiore T. né con nessun altro. Però tutti l'aiutarono. Quando suonava il telefono c'era sempre un soldato che riceveva il messaggio e lo passava a Mara perché lo annotasse. Mara apprese che un uomo dell'importanza del dottor T. poteva mettere i piedi sulla scrivania e masticare la gomma mentre parlava e nessuno si sorprendeva. E lui non era certamente l'unico a farlo.
Mara era la semplicità in persona e tutti la trattarono come se fosse la sorellina più piccola. Si sentì a suo agio con tutti. Fu come se li avesse conosciuti da sempre. Scherzavano, erano simpatici, allegri, amichevoli e generosi. Vicino a loro si respirava il senso della libertà allo stato puro e soprattutto dell'uguaglianza. Mara non poteva crederci. Il suo mondo interiore non resistette e franò così che Mara dovette ricostruire il suo mosaico di idee, di sentimenti e concetti che rappresentavano il bagaglio che l'aveva accompagnata attraverso momenti difficili nonostante la sua breve vita.
Pezzo dopo pezzo, fino a formare un tutt'uno, formato dai molteplici aspetti della vita, pieno di colori, vibrazioni ed esperienze nuove, una filosofia di vita che venne intrecciandosi con tutte queste nuove prospettive. Effettivamente ebbe molta fortuna.
 
Non dovette viaggiare all'estero per imparare una lingua straniera come l'inglese che più tardi le avrebbe aperto la porta per un buon lavoro.
Gli Stati Uniti e l'Inghilterra erano arrivati da lei.
Le si rivelarono aspetti della vita che, poco a poco, formarono un affresco che contrastava con la maggioranza delle immagini alle quali era stata abituata a credere e valutare come cose buone e sante.
Uscì dal guscio nel quale era vissuta fino ad allora. Era più forte e con una visione più ampia delle relazioni umane. Sebbene fosse il principio di un lungo processo che ancora oggi non ha terminato, Mara è consapevole che questo processo non può finire finché sarà viva. Mara si era resa conto che la vita è una fonte inesauribile di sorprese e di lezioni apparentemente non coordinate tra di loro e che non tutti sono preparati ad accettare. Però sono solo apparentemente non coordinate.
Mara era passata dall'occupazione tedesca alla presenza degli Alleati, testimone di cattiverie e azioni orribili, porcherie e sporcizie però, nonostante non fosse più una bambina, non aveva capito ancora niente del sesso e della sua importanza. Forse perché allora il sesso non era tanto pubblicizzato come oggi.
Un giorno mentre camminava con aria distratta per una strada della sua città natale dove aveva fatto ritorno definitivamente con la sua famiglia, le passò accanto un camion che trasportava un gruppo di soldati nordamericani. I soldati le lanciarono insieme ad alcune parole incomprensibili, un palloncino di gomma a forma d'elmo uncinato come li portavano i tedeschi della prima guerra mondiale. Era il primo palloncino di gomma che Mara vedeva dai lontani giorni della sua infanzia: dopo averlo raccolto si ricordò di essere un'italiana povera però dignitosa e cercò di correre dietro al camion per restituirlo ma il camion dopo avere rallentato per prendere una curva con precauzione, sparì nel polverone della strada. Mara era felice di avere finalmente un palloncino tutto per lei e continuò la sua camminata divertendosi infinitamente nel vederlo ondeggiare nell'aria. Fu grande la sua rabbia quando un soldato passandole di lato le strappò di mano il palloncino dicendole chiaramente "Give it to me... I may need it..." (Dammelo! Ne potrei aver bisogno).
Mara arrivò al Comando della Polizia Militare Americana (la Military Police) infuriatissima. Naturalmente non si era recata lì per denunciare il furto, bensì per visitare un amico italiano che lavorava come interprete nel Comando dove lei stessa aveva lavorato per un breve periodo. Avendo ascoltato attentamente la lamentela di Mara, l'amico scoppiò in una risata fragorosa inviando allo stesso tempo un ideale e silenzioso ringraziamento al soldato che aveva evitato a Mara di fare un ingresso trionfale al Comando ondeggiando nell'aria quel maledetto palloncino, che era in verità un preservativo dovutamente gonfiato.
Mara ha dei buoni ricordi di quel Comando di Polizia, il 136 se la memoria non la inganna. Fu un fatto particolare che la intrigò più che commuoverla poiché per la sua misera esperienza non si rendeva conto ancora di ciò che può fare la forza della vita e lo sforzo di ciascuno per sopravvivere. A Mara si era come incollata una seconda pelle che avrebbe dovuto cambiare con il passare del tempo. Una pelle ben dura che la protesse contro la visione apocalittica degli avvenimenti. Per essere viva e soprattutto per volere vivere e imparare a vivere.
Il lavoro che Mara svolgeva nella "Military Police 136" consisteva principalmente nell'aiutare come segretaria il giudice di pace. Il poveruomo aveva il suo buon da fare per giudicare gli italiani che si comportavano male perché, in quel periodo di transizione dopo l'arrivo degli Alleati, regnava sovrano il caos. Faceva tutto ciò che era nelle sue possibilità per amministrare la giustizia e applicare la legge.
Durante la sua presenza nel Comando, Mara fu testimone involontario dell'arrivo di un camion militare sovraccarico di ragazze italiane quasi tutte provenienti dal Sud. Erano state scoperte in relazione intima con alcuni soldati nordamericani nelle tende di questi ultimi. La tragedia di quelle ragazze era causata principalmente dall'ignoranza, dalla fame, dalla distruzione delle loro case e dalla perdita della famiglia. Altro fattore da non trascurare era l'impossibilità di trovare un qualsiasi lavoro sempre a causa del disordine creato dagli avvenimenti bellici.
Il miraggio di una vita facile o forse un miscuglio di tutte le ragioni esposte precedentemente, insieme con la presenza di tanti soldati, pronti a qualsiasi cosa per avere un poco di compagnia femminile, aveva spinto tante povere ragazze ad abbandonare le proprie case o ciò che rimaneva di loro, nella speranza di assicurarsi due pasti giornalieri e qualcosa di più, eventualmente.
Erano tutte molto giovani e alcune malate. Furono tutte processate con l'aiuto di un interprete italo-americano in base ad una legge misteriosa. Misteriosa per lo meno per Mara, che fu mandata in un'altra stanza perché non ascoltasse i dettagli piccanti degli interrogatori. Ma successe che, mentre Mara faceva capolino, una delle ragazze passò dal corridoio per essere portata davanti al giudice, e vedendo Mara, libera e dall'aspetto indubbiamente italiana, le gridò alcune parole oscene:
"Già perché tu ti fai f... sotto lenzuola di seta invece noi ci hanno pescato sotto le tende..."
Mara rimase sorpresa e non capì. Non capì niente se non molto più tardi.
L'amico italiano che faceva i turni durante la notte, le raccontò che una volta una delle ragazze rinchiuse nella prigione che era situata in una specie di cantina con delle finestrelle sulla strada, si era denudata completamente sotto lo sguardo avido dei soldati nordamericani. La ragazzina, che aveva soltanto 14 anni, non ricordava quando era stata vergine. Oggigiorno non sarebbe più una notizia, però in quel periodo era qualcosa che ancora provocava disgusto, in un mondo che si stava scuotendo di dosso molte cose negative. Con l'arrivo degli Alleati, Mara e la sua famiglia poterono tornare a Civitavecchia. La casa era situata nella piazza principale, quasi di fronte alla cattedrale il cui campanile si era trasformato durante l'assenza dei fedeli in un ricovero per pipistrelli. Nell'edificio dove Mara era tornata a vivere, gli unici altri inquilini erano numerosi topi e topolini. Ovviamente non c'era la luce elettrica e, sul far della notte quando tornava a casa, cantava a squarciagola per spaventare i nuovi e non graditi vicini. Alla sera andava a letto presto. Per il gran caldo Mara, a volte, si affacciava alla finestra per ammirare quel tratto di mare che s'intravedeva dalla sua stanza in lontananza, a meditare sulle macerie ammucchiate nella piazza e ad ascoltare la voce del mare.
In fondo alla piazza, dall'altra parte della cattedrale, gli Alleati avevano permesso l'apertura di una specie di locale notturno, tra montagne di macerie, dove si facilitavano gli incontri tra i soldati alleati e alcune donne. Era aperto a tutte le truppe stazionate a Civitavecchia e lì si riunivano tutte le notti le "signore della strada." "Luna, luna rossa" si ascoltava a gran volume per tutta la piazza.
Una notte mentre Mara faceva come era sua buona abitudine le riflessioni della giornata trascorsa, appoggiata sopra il davanzale della finestra, avvertì improvvisamente un rumore strano proprio sotto la sua finestra. In un primo momento pensò che si trattasse di un topo gigante che, approfittando dell'oscurità, stesse facendo una passeggiatina. Ma subito dopo si rese conto che erano voci umane e comprese che si trattava di un uomo e di una donna. Lui doveva essere un soldato straniero giudicando dall'idioma che parlava e lei "una di quelle", come si diceva allora. Le parole che udì erano decisamente compromettenti e quando dalle parole passarono ai fatti, Mara chiuse la finestra per non vedere, per non intuire, per non capire. In quel periodo l'amore era per lei qualcosa di vago, sfumato, fatto solo di sguardi e strette di mano.
E molta fantasia. Non perché fosse di idee antiche, né per pudore o prevenzione, né tantomeno per un problema religioso. Era solo una ragazza non ancora matura per quel tipo di relazione. La storia di Mara non finisce qui.
Però questa è la storia di come si affacciò alla vita e di ciò che vide come lo visse. Ebbe la fortuna (se di fortuna si può parlare trattandosi di una guerra tragica che va dal 1939 al 1945) che la vita le rivelò che nascere, crescere, vivere e morire è uguale per tutti gli uomini, al di là di qualsiasi frontiera che l'uomo si è imposto. Quella stessa guerra con la presenza di persone di così differenti nazionalità fece di Mara una cittadina senza confini. Mara trovò alcune risposte ai suoi perché, ed ebbe il coraggio di confrontarsi con i diversi aspetti della stessa realtà. Si pose alcuni interrogativi sulla vita e sul perché gli esseri umani vivono in un marasma di immagini false.
Prima i tedeschi, poi i nordamericani e gli inglesi e altri ancora vennero nella terra di Mara in un momento nel quale tutta la sporcizia del mondo era emersa in superficie e ciascuno di loro portava con sé il retaggio, il patrimonio morale e culturale di idee e sentimenti, che influenzarono positivamente lo sviluppo della sua personalità. Ma insieme alla porcheria che era emersa, c'erano anche i valori umani, che si possono sperimentare più profondamente solo nel quadro di una situazione di emergenza come quella di un conflitto mondiale, quando i comportamenti degli uomini, condizionati dagli avvenimenti bellici, possono cambiare. Gli stessi uomini cambiano e ogni giorno che passa, tutto sembra avere un aspetto totalmente diverso da quello che aveva il giorno precedente.
Mara apprese che ci sono esseri umani buoni e altri cattivi, che c'è gente onesta e disonesta in qualsiasi posto di questo nostro mondo: misto, pazzo e sovrappopolato. Capì anche che tutto passa e niente resiste al passar del tempo, che non c'è né passato, né presente, né futuro. Esiste soltanto ciò che noi chiamiamo "tempo", qualcosa che fugge e annulla tutto, uomini e cose. Un qualcosa che non esiste.
Forse si potrebbe accusare Mara di peccare di superficialità nelle sue considerazioni e deduzioni o addirittura di "qualunquismo", però la verità è che cercò una spiegazione alle numerose domande che perseguitano l'umanità: le cercò a tentoni e in un modo forse poco ortodosso, confusamente, disordinatamente e aleatoriamente, lasciandosi trasportare dagli avvenimenti, tuttavia raggiunse quello stato mentale, psichico e spirituale dal quale nacque una cittadina del mondo.
Mara, nonostante sia felice di essere italiana, pensa che il suo paese è lì dove sono i suoi parenti e i suoi amici, di qualsiasi razza, nazionalità, credo o lingua appartengano. Lì dove c'è il suo lavoro, il suo pane e il suo vino, dove vuole vivere e morire: lì è la sua casa.
"Le reste est superflue", come direbbe Voltaire.
E così sia.
 
 
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agg. 15 novembre 2001