STORIA DI GIUDITTA
Giuditta vedeva il cielo dal balcone dell'unica
stanza ancora abitabile della sua casa paterna. Stesa
sopra il pavimento, avvolta in una vecchia coperta,
non sembrava avvertire la durezza del pavimento
né il freddo della mattina incipiente. Rimaneva
immobile, come schiacciata dai suoi pensieri. I
ricordi l'assaltavano e la molestavano come una
moltitudine di mosche nonostante cercasse di non
pensare, d'identificarsi in quell'istante che non
torna più, quell'istante di annullamento di se
stessa dopo una vita convulsa e caotica.
Le avevano detto, semplicemente e senza nessun giro
di parole, che le rimanevano solo pochi mesi di vita o
forse un anno. L'impatto era stato tremendo. Che fare?
Era sola, nonostante alcuni amici di circostanza, era
sola in un mondo che improvvisamente le si rivelava
come ostile e limitato.
Tornare a casa, soltanto questo le venne in mente.
Tornare indietro per cercare nel tempo passato, il
coraggio di affrontare un presente inevitabile.
Lì sperava di trovare la forza per affrontare
l'altra faccia della sua esistenza. Ora però
era viva ancora. Si sentiva viva e piena di desideri
in quel suo corpo giovane e ardente; si sentiva parte
della vita nel contatto con l'aria fresca della
mattina, il cui chiarore appariva con aria trionfante
dietro le montagne nelle tante mattine uguali. Con lei
e senza di lei. Si sentiva viva nel piacere di toccare
il pavimento e di sentirlo duro sotto il caldo palmo
della sua mano.
La sua casa paterna, costruita nella falda di una
montagna, era tutto ciò che le rimaneva, tutto
ciò che la legava alla sua infanzia e alla sua
adolescenza: uno splendido e tenero passato
cristallizzato con il tempo e immagazzinato nella sua
mente. Fino a quando la città, con tutte le sue
promesse e le lusinghe delle esperienze da fare, per
vivere pienamente, le aveva sviluppato quella
maledetta frenesia che con il tempo le aveva consumato
il corpo e lo spirito. Era tornata così nella
sua casa ed era frastornata al pensiero di cercare un
modo per chiudere il cerchio della sua vita ora che
era piena solo di ricordi, ombre degli anni nelle
pagine bianche della vita.
"Abbi cura, cerca di non sporcarti. Almeno
oggi...". La voce di sua madre la segue mentre lei si
allontana per la stradina che porta alla piazza grande
della sua cittadina. Oggi è un giorno
importante nella sua vita di ragazzina. Ha fatto la
prima comunione. Sebbene non si renda conto della
solennità del giorno che le tocca vivere, nota
nel bianco del suo vestito di seta, che c'è
qualcosa di nuovo nella sua vita. Un giorno da
ricordare. "Devo essere buona oggi...". Giuditta era
quasi sempre buona e comprensiva, però era
testarda come pochi ed aveva quella caparbietà
che a volte le dava un'aria di... disubbidiente.
Però oggi, no. Oggi si sarebbe comportata bene,
ma proprio bene. Giuditta cammina con la testa eretta,
con aria altera, portando chiusi dentro di sé i
pensieri di una bambina, con il suo vestitito di seta
bianca, le scarpe anch'esse bianche ed una borsetta di
merletti, naturalmente bianca, dalla quale spunta un
fazzolettino... Sì, in verità, Giuditta
era l'immagine stessa della purezza. Ed era decisa a
comportarsi bene, come una signorina, anche se non era
esattamente una signorina dato che aveva appena dieci
anni.
Improvvisamente le sembrò di udire come un
miagolìo di un gatto in difficoltà, e
questo la allontanò immediatamente da tutti i
suoi buoni propositi. Un branco di bravacci,
più piccoli di lei, stava torturando un gattino
così piccolo che appena si potevano udire i
suoi lamenti.
Il senso di protezione verso i più deboli
che era molto sviluppato in Giuditta, fece sì
che si lanciasse furiosa contro il gruppo di monelli
malvagi ai quali dovette apparire come l'Arcangelo
Gabriele con tanto di spada sguainata, poiché
si diedero tutti alla fuga gridando anche se le loro
grida furono superate abbondantemente da quelle di
Giuditta. S'inchinò, raccolse il gattino,
spaventato e dolente, si strinse a lei con le poche
forze che gli erano rimaste, strappandole e
insudiciandole così il suo candido vestito. Era
così sporco di fango che Giuditta tirò
fuori dalla sua borsetta il fazzolettino bianco di
merletto per ripulirlo un poco. Però fu
inutile. Ebbe allora una idea luminosa: decise che
doveva lavarlo e afferratolo per la collottola, lo
mise sotto il getto d'acqua di una fonte che sgorgava
nel mezzo della piazza. A questo punto, il povero
animale, che doveva avere raggiunto il massimo della
sopportazione, fece sforzi sovrumani per liberarsi e
dopo averle morso e graffiato una mano, si
allontanò correndo a morire in santa pace, il
più lontano possibile dagli esseri umani. Come
Giuditta apprenderà più avanti nella sua
vita, gli uomini hanno, a volte, molto poco di
umano.
In ogni modo Giuditta ci rimase male e
interpretò la fuga del gattino come un affronto
personale. Tornò a casa piangendo e rassegnata
ai rimproveri inevitabili di sua madre: "Aspetta solo
che veda in quale stato pietoso hai ridotto il
vestito." si diceva Giuditta. Però non successe
niente di ciò che temeva. La madre capì:
in verità quasi sempre comprendeva. Ancora una
volta comprese che sua figlia aveva il cuore
più grande del cervello e che, mano mano che
cresceva, la sua sensibilità le avrebbe
complicato la vita. Preferì non spiegarle che a
volte è meglio evitare situazioni sgradevoli.
La madre non aveva le idee molto chiare su ciò
che si deve fare e ciò che è preferibile
evitare. Fu per questo, sapendo che sua figlia era una
creatura molto buona, che non fece nessun
commento.
Fu un bene o fu un male? Fu in ogni modo una
occasione perduta perché Giuditta apprendesse
alcuni aspetti della vita, qualcosa che più
tardi la vita le avrebbe insegnato con una mano
più dura e pesante.
Giuditta si era già dimentica della sorte
del gattino (oh, meraviglioso periodo dell'innocenza)
e stava giocando con il suo cane, vestita con un paio
di pantaloni che non la obbligavano ad avere cura di
non sporcarsi. Lei aveva un cuore troppo tenero e una
fantasia molto sviluppata: era fatale che dovesse
soffrire. Come, per esempio, le successe con Riccardo.
Lui poteva avere quattordici anni, lei appena dodici.
Lei aveva la testolina piena di sogni romantici, lui
aveva la testa piena di racconti erotici. Un giorno si
trovarono soli e lui si comportò in modo
prepotente. Prima che Giuditta potesse rendersi conto
delle sue intenzioni, questi l'afferrò per la
vita e la baciò. Un bacio vero, sulla bocca. Oh
Dio! Una cosa che la farebbe ridere oggi, però
in quel momento, che schifo! Sì, Giuditta
sentì un vero ribrezzo, fuggì dritta a
casa sua e mise la testa sotto il cuscino. Non pianse
però. Ricorda solo che rimase rigida e immobile
come ad aspettare che qualcosa accadesse. Avvertiva
sopra le sue labbra l'odore di Riccardo, un odore
stomachevole, di latte in povere e lavanda a buon
mercato. Fino a quando reagì, andò in
bagno e si sciacquò la bocca a lungo dopo
essersi lavata i denti. Poi si fece coraggio, si
guardò nello specchio e si sorprese di trovarsi
uguale a prima: come se quella esperienza avesse
dovuto cambiarla, invecchiarla o per lo meno alterarle
lo sguardo. In verità, non le era piaciuto quel
bacio. Proprio per niente. Non era così che si
era immaginata il suo primo bacio. Si sentì
defraudata e decise in quell'istante che non avrebbe
mai più guardato Riccardo in faccia, né
gli avrebbe rivolto la parola. Finalmente, tirò
fuori la lingua, fece una smorfia nello specchio e
uscì dalla camera, sentendosi effettivamente
più vecchia. Solo dentro se stessa,
naturalmente. "Ci voglio andare... ci voglio andare...
e se tu non mi lasci... farò una pazzia!".
Giuditta parlava così a sua madre. In quel
tempo il mondo era sconvolto dalla guerra sanguinosa
che imperversava per tutta l'Europa: la seconda guerra
mondiale. E Giuditta voleva andare in calessino ad un
villaggio vicino con la sua amica Ninetta e suo padre,
Don Beniamino, un contadino eccentrico ma molto
simpatico. Ciò che attraeva Giuditta era
proprio la ragione opposta che motivava il rifiuto di
sua madre: il probabile incontro con soldati tedeschi
(già era passato l'8 di settembre del 1943,
trattato unilaterale dell'Italia con gli Alleati per
porre fine alla guerra ed era in atto la conseguente
occupazione di tutto il territorio italiano da parte
dell'esercito tedesco) o forse un incontro ancor
più pericoloso con gli Alleati che avevano il
dito facile con i mitragliatori. L'una e l'altra
possibilità offrivano delle emozioni che
Giuditta con la sua fantasia depurava di qualsiasi
pericolo. Tutto questo nonostante una volta, in
un'altra cittadina vicina, aveva sperimentato
ciò che significava un bombardamento e quante
vittime poteva procurare. Ma Giuditta viveva nel suo
mondo di adolescente, un mondo dove manca la
conoscenza delle cose dolorose della vita. Viveva ogni
esperienza a fior di pelle, superficialmente, sebbene
con entusiasmo ed interesse sincero. Inoltre voleva
andare a spasso col calessino, cosa che non poteva
fare frequentemente e pertanto non voleva perdere
l'occasione che le si presentava: guerra o no.
Sua madre però s'impuntò. Fu allora
che Giuditta decise d'obbligarla a darle il suo
consenso. Per fare ciò ricorse al ricatto. Era
inverno e faceva un freddo polare. Quella stessa
notte, Giuditta si denudò e si chiuse fuori sul
balcone. Quello stesso balcone dal quale ora vedeva lo
spuntar del giorno. Era decisa ad ammalarsi per farsi
dare il famoso permesso. E sua madre ancora una volta
cedette.
A distanza di tanti anni, Giuditta si domanda:
"Perché, perché questa sfida? Che cosa
rappresentava per lei, in quel momento della sua vita,
quella famosa passeggiata? Forse si trattava solo di
un capriccio o piuttosto di voler affermare la sua
volontà, la ribellione alla disciplina, il
poter seguire il suo istinto, i suoi desideri. Non
importava ciò che poteva accadere".
La madre perse nuovamente una occasione per
insegnarle qualcosa che un giorno avrebbe potuto
servirle nella vita nel suo cammino verso la
maturità. L' obiettività nelle scelte e
anche il sapere soppesare ciò che conviene e
quello che può nuocere.
Erano partiti presto in quella mattina
particolarmente fredda e gelida. Giuditta era seduta
tra la sua amica ed il padre di lei. Quella giornata
trascorse e sparì nell'imbuto del tempo,
divenne polvere, come tutti gli altri giorni passati e
futuri.
Tuttavia rimase impresso per sempre dentro di lei
il piacere che le suscitava il galoppare del cavallo
ed il rimbalzare del calessino sopra la strada non
asfaltata, il freddo che le tagliava la faccia ma
paradossalmente era gradevole perché la faceva
sentire viva e parte della natura. Poi il villaggio
dove erano andati a comprare il vino, con le sue case
nuove ed i volti sconosciuti, il vagabondare lento nel
silenzio della piazza deserta all'ora del pranzo
quando tutti sono riuniti intorno alla mensa. Si
potevano vedere solo alcune galline e asini aggirarsi
in libertà nella piazza, così come
alcune motociclette dei soldati tedeschi, unico
segnale della presenza della guerra. Al ritorno
Giuditta cantò con la sua voce forte e chiara,
mentre i suoi amici sembravano assorti nei loro
pensieri. O semplicemente dormivano. Fu un ritorno
tranquillo come in un qualsiasi altro giorno, senza
guerra. Un giorno, comunque, da ricordare. E mai lo
dimenticò.
Giuditta aveva vissuto la guerra come una grande
avventura. Come se non fosse avvenuto lo sterminio
indiscriminato, le azioni orribili e selvagge, la
distruzione e la morte. Aveva vissuto la guerra in
quella età nella quale non si capisce la
crudeltà umana né quando si scatenano e
affiorano i più bassi istinti dell'uomo.
Dovunque. La vita di Giuditta era stata sempre una
continua attesa: sulla soglia della sua casa. Aveva
atteso la vita con ansia, rabbia, tenacità,
caparbietà. L'aveva cercata e incontrata in
ogni nuovo giorno, in ogni faccia sconosciuta che
aveva incontrato per la sua strada.
La vita con il suo bagaglio di idee nuove, con le
relazioni umane, l'aveva vissuta proprio nella sua
cittadina. Aveva conosciuto e trattato con persone di
diverse nazionalità che la guerra aveva
trascinato fino a lei. Tutti avevano qualcosa da farsi
perdonare: gli stessi italiani non si erano comportati
molto bene. Giuditta era nata e cresciuta in una
famiglia piccolo borghese, onorata e buona, dove tutto
procedeva secondo l'ordine pedante e noioso
dell'ambiente che lo esigeva anche se era caldo e
sicuro. Per lei il cambio fu enorme, un cambio che non
la colse d'improvviso, ma bensì che la
trasformò poco a poco, facendo di lei una donna
contrastata tra l'educazione che aveva ricevuto nella
sua famiglia fino all'adolescenza e la donna che
divenne dopo. Una donna aperta ai cambiamenti anche se
si rendeva conto che la verità apparteneva al
dopo.
Ricordava Giuditta e tremava, forse per il freddo
della mattina o per quei ricordi che la riportavano
indietro, lontana nel tempo, come se stesse cadendo in
un abisso senza fine. Sempre più rapidamente. E
le venivano le vertigini...
Sudava freddo, però non si muoveva. Rimaneva
immobile con gli occhi aperti guardando verso il
cielo, però non vedeva il cielo tingersi di
colori sempre più forti anzi sembrava che il
sole non volesse affacciarsi per non molestarla. Lei
continuava a rimanere nel suo stato d'animo, tra la
realtà e il sogno, rivivendo il tempo di quando
era più giovane. E sana.
Era alto Tom, con i capelli color carota e tante
efelidi disperse su di una faccia simpatica dove
dominavano un paio di occhi verdi bellissimi. E
Giuditta si era innamorata quando lo aveva visto,
seduto ai piedi del monumento nella piazza principale
della sua cittadina, con il volto illuminato dal sole
mentre osservava interessato il passaggio della gente
locale, cosa che doveva risultargli molto
interessante. Era un soldato nordamericano. Thomas
Mullins della Quinta Armata. Era giovane, bello e
sano. E Giuditta aveva sentito per la prima volta
nella sua giovane vita una rara angustia stringerle il
cuore.
Lei aveva sedici anni e come la canzone dice "not
yet been kissed" (non baciata ancora). Fu una
relazione che durò solo pochi giorni
poiché quella stessa guerra che li aveva fatti
incontrare, li separò immediatamente. Ci fu una
cena di commiato, dato che la Quinta Armata si
allontanava dalla zona di Roma verso altri lidi. Ad
altre lotte. Si mangiò, si bevve vino, si
raccontarono barzellette e si scherzò. Si rise
in quella notte come se ne sarebbero seguite tante
altre, allegri e felici. Senza nessuna
preoccupazione.
La notte passò ma Giuditta non
dimenticò. Né potrà mai
dimenticare il bacio gentile e lieve che le diede Tom,
ai piedi della scala di casa, prima che la vita e la
guerra se lo portassero via per sempre. Forse fu il
bacio meno appassionato che mai diedero a Giuditta,
tuttavia, nessun altro bacio seppe darle quella
sensazione di piacere, di turbamento e di agitazione
che dentro di lei il bacio di Tom. Mai fu tanto vicina
a comprendere l'amore. Però Tom non era che
un'ombra anche se rimase per sempre dentro di lei, nei
suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nei suoi desideri
più intimi: per tutto il resto della sua vita.
Il pensiero della morte era ancora separato da lei,
come si trattasse di qualcosa senza consistenza, senza
principio né fine.
Aveva dato l'esame del terzo anno di tedesco alla
facoltà di lingue dell'università di
Napoli. Un esame importante per la sua carriera.
Giuditta osservò con apprensione la testa
bionda dell'assistente mentre, in piedi, aspettava che
le scrivesse la nota nel suo libretto.
Giuditta pensava di avere risposto bene a tutte le
domande che le aveva fatto il professore e che il suo
tedesco non fosse tanto male dopo tutto. Tuttavia,
quando l'assistente le chiese con voce fredda e
distante: "Scusi, lei non è mai caduta?"
Giuditta pensò che l'assistente le stava
domandando, con aria severa, se non fosse un po'
stordita come conseguenza di una caduta e come aveva
osato presentarsi ad un esame così importante
non essendo pronta... Come se si fosse trattato di uno
scherzo e non di un esame serio, che le aveva
procurato anche un gran mal di stomaco, le uscì
dalla bocca un tremulo no. In quell'esame ebbe un
trenta (voto massimo). E quella non fu una occasione
perduta. Però tante altre volte, quella su
maniera di distorcere, d'interpretare falsamente la
verità, aveva fatto sì che lei stessa
chiudesse la porta davanti alla buona sorte o facesse
naufragare nel nulla la possibilità di un
destino migliore per la sua vita.
Quel suo andare a conclusioni sbagliate, quel suo
voler vedere l'offesa o il dubbio quando invece si
trattava di un complimento sincero o solo di una
semplice domanda. La fantasia di Giuditta non
conosceva limiti. Negativa su tutta la linea. Sempre.
Vedeva nuovamente il volto asettico dell'assistente
mentre le comunicava il voto ottenuto con aria assente
e disinteressata. Non aveva capito niente e neanche
intuito il dramma che Giuditta aveva vissuto in quei
pochi secondi.
Ricordi vivi che come le emozioni che li
motivavano, erano intatti, pronti a risorgere con il
loro odore di naftalina, per presentarsi con tutto il
loro peso, come fantasmi amici, come se il tempo li
avesse purificati togliendogli di dosso tutte le
scorie e lasciandoli integri e profondamente
radicati.
Le immagini la opprimevano. Pensieri, ricordi,
sentimenti, tutti ingredienti del mondo dei vivi.
Giuditta si rese conto tardi dell'importanza del
sesso. Il mondo (quante volte glielo avevano detto)
gira esclusivamente intorno al sesso. Stringi,
stringi, tutto si riduce al sesso, dovunque si guardi,
tutto fa direttamente o indirettamente riferimento al
sesso.
Giuditta era andata a ballare con un amico, un
ragazzo simpatico e suo amico da anni. Così
dopo il ballo, le sembrò una cosa naturale il
passaggio in "Vespa" verso un posto fresco del bosco
in un luogo lontano da occhi indiscreti. Per un bacio.
Del bacio Giuditta ricorda solo un sapore di
trifoglio. Ciò che non aveva scordato era
"qualcosa" duro che aveva sentito comprimerle il
ventre, senza nessuna cattiva intenzione da parte
dell'amico, ma una conseguenza logica del ballo, del
posto nel bosco e del bacio.
A lei non piacque né d'altra parte la
scosse. Non era ancora arrivato per lei il tempo di
quelle relazioni che, come dice la gente, governano il
mondo.
Il terremoto scatenato dalla guerra era terminato.
La terra e la sua popolazione sperimentavano le ultime
scosse di assestamento. Giuditta era passata dal
periodo tumultuoso della deflagrazione a quello
rumoroso della pace come se avesse cambiato casa. Non
era turbata, solo eccitata e desiderosa di apprendere
e capire. Soprattutto vivere.
La guerra con tutto il suo carico di sangue, dolori
e immoralità che aveva trascinato con
sé, oltre ad abusi e vessazioni, non avevano
disincantato Giuditta.
Piuttosto, come a molti altri adolescenti della sua
generazione, la maledetta guerra aveva aperto non una
finestra bensì una porta alla vita. Le aveva
tolto di dosso le scorie informi della sua
inesperienza per fare di lei una creatura libera ed
aperta a tutti i problemi. Aveva fatto di lei una
persona vitale, un essere pronto a ricevere, sebbene
non sempre disposta ad accettare una idea qualsiasi.
Era un miscuglio disordinato di sensazioni, sentimenti
e nozioni anche se un po' superficiali. Aveva
cominciato a pensare e riflettere.
La sua estrema sensibilità o forse la sua
maniera "romantica" di vedere la vita a soli diciotto
anni dopo una educazione piccolo-borghese in netto
contrasto con il suo mondo più intimo di idee
ribelli e nebulose, l'aveva portata spesso a sbagliare
o aveva impedito che il suo carattere si sviluppasse
secondo una logica normale e armoniosa.
Giuditta non sa ancora, dopo tanti anni, se fu un
bene o un male: particolarmente adesso che deve
affrontare l'ultima tappa della sua esistenza. Tutto
sommato, le sembra che la vita, vissuta
impetuosamente, non l'abbia defraudata. Aveva vissuto
e non era forse questo ciò che più aveva
desiderato? In ogni modo in quel periodo ancora non
riusciva a capire molte cose, nonostante avesse
vissuto l'orrore della guerra senza comprenderla del
tutto, conobbe anche, per la prima volta nella sua
vita, lo spettro del razzismo.
Un ragazzo che sembrava essere innamorato di lei,
quando seppe che si chiamava Giuditta, le chiese in
modo decisamente brutale: "Però non sarai
ebrea, per caso?". A una domanda formulata in un modo
così diretto, lei avrebbe dovuto rispondere con
un sì o un no. A Giuditta non era mai passato
per la mente di pensare alla differenza di razza o di
religione, e sentì come una avvisaglia nel
fondo del suo cuore. Fu come se si fosse accesa una
luce nella profonda oscurità del suo
subcosciente. La sua mente non reagì subito, il
suo cuore sì. Non rispose. Si limitò
solo a guardare il ragazzo negli occhi.
Giuditta non sa se fu un bene o un male. E' un bene
conoscere l'ingiustizia che governa questo nostro
mondo? E' salutare mettere in discussione valori
fondamentali che mai prima di allora erano stati messi
sotto processo? Che Dio ci protegga! Le sembra di
udire la voce di una sua vecchia zia, timorata di Dio,
alla quale aveva voluto un gran bene. Questi valori
umani le si presentavano ora da un nuovo punto di
vista in tutta la loro miseria umana: criteri che
erano stati accettati supinamente nel passato, senza
mai sottoporli a giudizio, e ora apparivano totalmente
negativi?
Improvvisamente tutto diventa chiaro e prende
forma. Forse per quel senso di auto-conservazione, ci
chiudiamo in noi stessi, ci mettiamo gli occhiali neri
o peggio ancora chiudiamo addirittura gli occhi per
non vedere le cose come veramente sono, per non
guardare le cose e fatti che ci feriscono e ci fanno
soffrire?
Da quando Giuditta aveva cominciato a fare i primi
passi nella comprensione delle relazioni umane, era
come se stesse passando dalla cecità alla luce,
però non vedeva ancora i profili esterni dei
fatti. La realtà aveva tante facce, tanti
aspetti diversi, e Giuditta, nella sua ansia di capire
e di essere giusta nei suoi giudizi, aveva finito per
giustificare tutto e tutti. Sdoppiandosi in due
personalità permanentemente contrastanti,
riusciva a vedere le diverse facce della stessa
realtà fino a quando la confusione si faceva
così pesante che diventava quasi impossibile da
sopportare e si sentiva come impazzire. E non se ne
rendeva conto.
Quando aveva cominciato ad avere idee, a formulare
giudizi, a incamerare criteri? Quando qualcuno aveva
impresso delle idee nella sua mente, idee forti e
precise, senza nessuna finzione? Giuditta cercava di
mettere a fuoco i ricordi, però le immagini le
risultavano sfocate ed imprecise. Improvvisamente,
chissà da quale angolo nascosto della sua
mente, apparirono tutti insieme, gli amici della sua
adolescenza. Aveva ventitré anni. Le aprirono
la mente con un taglio di bisturi, senza pietà,
però con grande amore. Sergio, un pittore di
nazionalità argentina, Antonio e Marco entrambi
aspiranti attori ed il più importante di tutti
per la sua trasformazione spirituale: Lucio, lo
scrittore. Giuditta aprì le braccia, non sapeva
se per abbracciarli o per respingerli, come se fossero
parte di un incubo. Rappresentavano una parte
importante e decisiva della sua vita. E le doleva,
quasi fisicamente, tornare a rivivere quel periodo.
Paura dei ricordi. A volte succede.
Era tornata a vivere dopo un parto lungo e
laborioso. Finalmente aveva capito come andava il
mondo. Ripensò alle risposte a tante domande
che nel passato l'avevano tormentata e che aveva
accantonato, per pigrizia mentale e a causa del vuoto
nel quale si agitava. Un vuoto culturale, nonostante i
suoi studi, evidentemente superficiali e le sue
letture che dovevano essere state casuali e
disordinate. Né lo studio né la lettura
sembravano esserle serviti per capire come
funzionavano le regole del gioco in questo nostro
mondo.
S'innamorò di Antonio però cedette a
Marco, che era un ragazzo geniale, intelligente e
molto persuasivo. Lo aveva accettato forse senza
troppo entusiasmo, decisa a trasformarsi in una donna.
Aveva venticinque anni. Non si pentì mai di
ciò che fece, piuttosto della mancanza di
coraggio nell'affrontare certe situazioni o per le
occasioni perdute soltanto perché non si era
impegnata a coglierle. Solo per quelle le era rimasto
un sapore amaro in bocca.
Ora le tornavano alla memoria le occasioni non
accettate, a volte, solo per un senso di
dignità o caparbietà e anche le
esperienze evitate che invece avrebbero potuto
cambiarle la vita integralmente.
Il suo carattere intessuto d'incredulità e
fatalismo l'aveva inchiodata nel suo sentiero, nei
suoi propri binari (le venivano alla memoria i versi
di A. Machado "Camminante, non c'è cammino, si
fa il cammino all'andare..."). I baci dati alla
persona sbagliata e rifiutati a quella giusta, per uno
stupido orgoglio. Errori, sbagli.. quanti !.
Però si vive sbagliando e tutti commettiamo
errori: forse era una filosofia a buon mercato,
però la sua vita avrebbe potuto svilupparsi in
modo più monotono. Tutto le era servito per
imparare ad apprezzare il fatto di essere viva, ogni
ora di ogni giorno, anche quando il dolore e la
disperazione si erano uniti contro di lei.
Giuditta amava il suo prossimo, anche con le sue
debolezze, con le sue meschinità che a volte
apparivano sordide e brutali, con le sue
manifestazioni di egoismo, con la sua vigliaccheria,
perfino nella sua avidità: tutti aspetti
terribilmente umani che aveva rilevato poco a
poco.
Nonostante le varie attitudini, quasi tutte
negative, di molti esseri umani (forse la maggior
parte) riusciva a identificarsi con loro,
perché anche lei era un essere umano. Anche lei
aveva dovuto lottare contro gli stessi mostri e non
sempre era riuscita a vincerli.
Le idee di Lucio erano idee forti per qualcuno
forte e lei era debole. Fu per questo che ebbe paura.
E finì per rinchiudersi in sé stessa con
queste verità tanto pesanti da sopportare e
difficili da concretizzare.
Anni giovanili, anni duri, densi di problemi e
pertanto anni di vita intensa e grande
vitalità. Ora tutto questo le sembrava lontano,
evanescente e torbido come una macchia di colore senza
contorni. Ora che doveva affrontare il suo ultimo
problema: come separarsi della vita senza rinnegarla
né minimizzarla, senza ridurne i confini,
né chiudere gli occhi davanti alle
verità che era riuscita a riunire attraverso
anni di sforzi e di lotte. Voleva morire cosciente. Ci
sarebbe riuscita?
Aveva accettato tutto dalla vita: sentimenti
violenti, sensazioni di paura, umiliazioni, fallimento
e successo: tutto con la stessa dose di
serenità (Kipling docet). Soprattutto con
disaffezione. Ed ora doveva dire addio a tutto e a
tutti. Come avrebbe potuto farlo, lei che era ancora
giovane e che aveva tante cose da dire e da fare.
Tuttavia, erano state sufficienti poche parole e tutto
era crollato.
"Bisogna essere coraggiosi...". Facile a dirsi,
difficile esserlo.
In ogni caso Giuditta si consolava nel sapere e
conoscere ciò che occorreva e quando. Sapeva
che aveva ancora, più o meno, un anno di vita.
Voleva, doveva organizzare quest'anno, questo prezioso
e meraviglioso anno. Quanta gente moriva
improvvisamente a qualsiasi età, senza neanche
avere il tempo di congedarsi dai suoi. Lei sapeva e
poteva approfittare di questo breve periodo di tempo
che le rimaneva. Ciononostante, aveva rinunciato alle
sue amicizie recenti e passate per tornare nella sua
cittadina natale, dove i suoi amici d'infanzia e
dell'adolescenza dovevano essersi trasformati, dopo
tanto tempo, in estranei.
Che cosa cercava in quelle montagne, quelle stesse
montagne che anni prima le avevano dato l'impressione
di soffocarla? Forse era il desiderio di stare da sola
con sé stessa o l'illusione di poter tornare ad
incontrarsi con la sua gioventù e la
verginità del suo carattere o la speranza che
lì il tempo passasse più lento... O
forse solo perché non voleva la pietà o
la compassione dei suoi amici.
Ma forse aveva solo bisogno di tempo per pensare e
riflettere. Perché la morte non la cogliesse di
sorpresa.
E lì come fosse crocifissa. Esanime, con le
braccia stese e le gambe aperte, una grande bocca nera
che gocciola sangue e materia, gli occhi sbarrati in
uno sguardo fisso, terribile... Non insulta più
le infermiere: non ha occhi che per l'orologio che
segna lento e inesorabile i minuti. I dottori hanno
detto che se la "cosa" esce presto, la paziente si
salverà. I dottori sanno quanto soffra.
Si trattava della sorte tra la madre o il
bebè. Ma dato che il cuore del piccolo non si
sentiva più battere e ormai doveva essere
morto, allora si salvò la madre.
Che cosa si poteva fare per quella povera donna?
Giuditta stava facendo un corso per infermiera e le si
avvicinò. Fece per accarezzarle la fronte, ma
lo sguardo pieno d'odio che le lanciò la donna,
la immobilizzò. Capì in quel momento che
era troppo debole, troppo sensibile al male altrui,
per occuparsi dei malati. Aveva desiderato poter avere
cura del corpo del suo prossimo, però chi si
sarebbe preso cura di lei? Si rese conto che avrebbe
finito per identificarsi con ognuno dei malati, con
ogni malattia. No, forse, sarebbe stato meglio
aiutarlo psichicamente, dato che a volte, salvando il
corpo s'infligge una ferita profonda ed insanabile
allo spirito.
Lo aveva amato. Aveva sofferto per lui di gelosia,
di rancore,
di paura, d'angustia. Una angustia sottile, che le
faceva male dentro. Era stato la sua vita stessa. Per
lui aveva cercato di morire. Ed ora dopo tanta
sofferenza, finalmente si rendeva conto che si era
trattato di attimi che già si erano diluiti nel
niente, non lasciando alcuna traccia. Quasi le veniva
voglia di sorridere pensando che, a volte, si vivono
situazioni che ti portano alla pazzia, rubano momenti
preziosi della nostra vita, ci torturano, ci spezzano
e ci spingono come ciechi verso la distruzione di noi
stessi... il suicidio. Poi passa il tempo e tutto si
dimentica e si trasforma.
Giuditta sorride nel suo dormiveglia, sorride
perché quel dolore antico le riscalda
paradossalmente il cuore. Ora che potrebbe finalmente
sentirsi serena perché ha superato l'epoca
degli amori difficili, delle relazioni impossibili,
delle rincorse per conseguire il niente, dell'inutile
molestarsi inconcludente, ora che potrebbe tornare ad
incontrarsi con se stessa, nella pace dei sensi. Ora
è troppo tardi.
Il sole era già alto dietro le montagne
quando Giuditta aprì finalmente gli occhi.
Qualcosa l'aveva svegliata. In un primo momento non si
rese conto dove stava. Avvertì il freddo che le
saliva per il corpo dal pavimento, si guardò
intorno e prese coscienza del suo stato, della sua
realtà. Si mise a piangere. Lacrime leggere
dapprima, poi un forte pianto amaro, di paura e
disperazione. Ciò che l'aveva svegliata era la
voce di qualcuno che stava gridando il suo nome. Un
voce di bambino. Si alzò trascinandosi sopra le
ginocchia, dato che la prolungata posizione notturna
le aveva tolto le forze. La porta della casa si
aprì lentamente e vide apparirle un ragazzino
di dieci anni, vestito poveramente, con in mano una
bottiglia piena di un liquido che aveva tutto
l'aspetto del latte. Era latte. Giuditta lo
guardò cercando di ritrovare nella sua memoria
quegli splendidi occhi verdi che la fissavano, senza
curiosità. Con franchezza e naturalità.
Come se lei non fosse una estranea per lui. Fu lui a
parlare per primo: "Mi chiamo Franco e sono il figlio
di Monica, la figlia della vecchia Maria, sua vicina.
Mia nonna mi ha chiesto di portarle questa bottiglia
di latte e di chiederle se ha bisogno di qualcosa. Io
la posso aiutare".
Giuditta si passò una mano sugli occhi come
per vedere meglio, ma fu solo un gesto di nervosismo.
Perché improvvisamente le era parso vedere
Monica, una sua compagna di scuola e buona amica ai
tempi della sua gioventù, così come
l'aveva vista l'ultima volta: giovane, bionda e con i
suoi grandi occhi verdi.
"E tua madre, come sta?"
"Mia madre è morta. Io non la conobbi.
Morì dandomi alla luce."
"E tuo padre ?" "Neanche lui ho conosciuto.
Emigrò in cerca di lavoro..."
Giuditta rimase silenziosa per alcuni minuti mentre
Franco continuava a guardarla con una serietà
negli occhi che contrastava con la sua faccia di
bambino. Ma il suo silenzio non molestava né
pesava. Era un silenzio d'attesa. L'attesa di chi non
è abituato a discutere, bensì ad
accettare le decisioni degli altri. Improvvisamente
Giuditta sentì pena per lui.
"Però, Franco, non dovresti essere a scuola
a quest'ora della mattina?"
"Io non vado a scuola. Mia nonna ha bisogno di me
in casa."
"Però a te piacerebbe andarci, non è
vero?"
Franco le diede uno sguardo d'adulto, di bambino
cresciuto troppo alla svelta, e questa sembrava essere
una delle sue caratteristiche più salienti.
"Sì, credo che mi piacerebbe imparare a
leggere e a scrivere, però come dice la nonna,
uno deve adattarsi a ciò che si ha e
accontentarsi di ciò che si può ottenere
onestamente, particolarmente quando si è
poveri. Per questo, dato che sono solo al mondo e che
l'unica persona che ha cura di me è lei... se
lei dice che ha bisogno di me..."
Giuditta non seppe che rispondergli. Sembrava
giusto ciò che aveva detto. Però lei
sentì, per la prima volta nella sua vita, una
voglia pazza di ribellarsi, non per se stessa,
bensì per gli altri. Una voglia di mettersi a
gridare per dire che anche Franco aveva diritto di
migliorare la sua situazione, di progredire come
qualsiasi essere vivente in questo mondo dove regna un
egoismo bestiale, un mondo di merda.
Cosa non le passò per la testa in quel
momento, nello spazio di pochi secondi. Parole pesanti
e piene d'odio e di rancore. Pensò a se stessa:
aveva vissuto una vita piena perché si era
ribellata al destino che la voleva inchiodata
lì, senza nessuna apparente possibilità
di via d'uscita e tuttavia era sfuggita alla
mediocrità di una vita squallida forse
perché era stato più forte il suo
desiderio di riscattarsi e di vivere la sua vita
piuttosto che la paura di confrontarsi con essa. Era
riuscita a farlo perché aveva potuto studiare:
i libri, le letture e soprattutto la guerra, la
maledetta guerra, l'avevano aiutata a maturare sebbene
si trovasse in mezzo alla violenza. Doveva la sua
libertà, quella dello spirito e della mente,
alla caduta fragorosa del vecchio mondo ed alla
nascita di nuove relazioni umane. Sicuramente doveva
ammettere che c'era ancora molto da fare perché
l'umanità potesse raggiungere un più
alto livello culturale perché la guerra aveva
portato con sé molto cambiamenti. Questi
pensieri passarono per la sua mente come le sequenze
di un film degli anni venti, rapidi e altalenanti, e
come sempre la lasciarono confusa, senza sapere bene
come aveva fatto a perdersi nel labirinto delle
immagini che la sua fantasia aveva disegnato. Come
sempre le succedeva che un pensiero la deviava per
altre strade portandola verso altri ricordi e
sensazioni. Senza binario.
Però l'espressione sulla faccia di Franco la
portò di nuovo all'inizio dei suoi pensieri:
ecco un bambino solo al mondo che apparentemente aveva
bisogno d'aiuto. Non le erano mai piaciuti molto i
bambini: li considerava fondamentalmente crudeli e con
poca immaginazione (non si era mai dimenticata del
giorno della sua prima comunione e del povero
gattino). Forse perché nella sua vita non aveva
pensato a nessun altro che non fosse se stessa e non
si era mai preoccupata di guardarsi intorno e di
vedere quanta gente aveva bisogno d'aiuto o di una
semplice spinta per non affondare nella sporcizia che
giorno dopo giorno gli si accumulava addosso.
Improvvisamente Giuditta si sentì come in
preda alle vertigini e barcollò. Franco corse
dal suo lato per soccorrerla. Capì in quel
momento che entrambi avevano bisogno l'uno
dell'altro.
"Ascolta, Franco, torna a casa tua e dì a
tua nonna che più tardi andrò a parlare
con lei".
Non sapeva bene ciò che voleva fare,
però già qualcosa si stava delineando
nella sua mente sempre pronta a gettarsi in nuove
storie o fare voli con la fantasia. Questa volta
però era decisa: avrebbe dedicato il suo ultimo
anno di vita a Franco. Lui aveva bisogno di una madre
e lei di qualcuno che le occupasse il tempo, la mente,
lo spirito e il cuore. Qualcuno lassù in alto
doveva sapere ciò che faceva. Forse non era
ciò che gli uomini chiamano Dio ma doveva
esserci qualcosa di superiore. Di nuovo si stava
perdendo nel marasma dei suoi pensieri e delle sue
riflessioni e stava andando alla deriva. Forse questa
volta la sua fantasia si stava materializzando. Spinse
il bambino fuori e lo vide allontanarsi correndo per
il sentiero che conduceva a casa sua.
Poi voltandosi per entrare a casa, fissò il
cartello dove il suo cognome era come nascosto sotto
un velo di polvere e tirato fuori un fazzolettino lo
passò sopra per togliere il primo strato di
sudiciume. Apparì il suo nome anche se non era
molto leggibile. Era la prova che la casa non era
più vuota. Era tornata a vivere. Domani e dopo
domani, che importava il futuro. Era il presente che
contava. Forse il suo cuore debole avrebbe sopportato
un'altra stagione. Si sentì improvvisamente
forte e vitale con molta voglia di fare le cose.
Tornava ad interessarsi alla vita e questa volta non
era per pensare a se stessa bensì ad un altro
essere. Sì, non c'era né passato
né futuro: solo il presente.
Entrò in casa ripromettendosi di comprare un
pulitore perché il suo nome tornasse a brillare
sulla porta della casa come quando i suoi genitori
erano vivi. Pulì la casa a fondo con l'aiuto di
Franco, anche perché lei non poteva stancarsi.
E avrebbe chiesto l'assistenza della nonna o di
qualsiasi altra persona e avrebbe... avrebbe...
avrebbe...
Per Dio !.