- Un lenzuolo di piume e una
coperta di conchiglie
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- Egnazia, 11 settembre 1508
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- «Domani arriverà la nave, Thalata,
mancano così poche ore all'alba...» ti
dicevo, e tu tra i brividi facevi sì, al chiaro
della luna mi illudevo di vedere brillare persino il
tuo sorriso.
- «Tienimi stretta, Marco, ho tanto
freddo» sussurravi, le braccia strette alle
ginocchia, raggomitolata nella tua veste corta, che
non serviva a scaldarti. Speravo che il mio amore
bastasse a guarirti, e che i giorni da vivere insieme
fossero più numerosi dei chicchi d'un cesto
colmo di grano. Invece la febbre ti divorava; il morbo
che si annida tra le canne della palude non aveva
avuto pietà dei tuoi occhi scuri, abituati alla
luce di un sole più feroce di quello che veglia
sulla mia Venezia.
- «Parlami ancora, Marco. Senza la tua voce,
la paura mi arriva sino al cuore». Il vento
frusciava tra gli ulivi; tesi l'orecchio: lontano, un
luccicare di lanterne, tre, quattro luci che
ondeggiavano, accompagnando un indistinto scalpiccio,
qualche mugugno, un'invocazione a san Biagio e poi,
alto, il tuo nome.
- «Marco, mi stanno cercando!»
balbettavi, con la tua voce di febbre e di pianto. I
tuoi occhi levati su di me, polle d'acqua venuta dalle
stelle, contenevano tutto l'amore che Dio ha sparso
sulla terra. Come può la figlia d'un pescatore
e di una filatrice saperne più dei Santi del
Vangelo, più degli eroi del Santo Sepolcro,
più di una madre, come può?
- Eppure tu, Thalata, che mi fosti sposa senza
anello e senza la benedizione dei Ministri della fede,
avevi così tanto amore in te, coi tuoi quindici
anni e le tue piccole mani sempre aperte alla carezza,
così tanto amore che non basterebbe un libro e
tutta la pazienza di mille stampatori a raccontarlo.
Per questo ti avevo rapita: io Marco Civran, nobile
rampollo d'alto casato veneziano, volevo te e
nessun'altra per sposa.
- «Ne farai la tua serva, invece. Ben che
vada, la tua concubina d'un mese. Poi i capelli biondi
e i profumi delle dame veneziane ti condurranno via da
lei» aveva detto tua madre, il mattino in cui
venni alla tua casupola. Sollevò appena lo
sguardo dal telaio, e con un piede continuava a
ninnare la culla dove dormiva l'ultimo nato: un ricco
straniero ammollito tra gli ozi e gli sprechi non
merita più d'un rapido sguardo, pensai, e
provai vergogna del mio corsetto ricamato alla moda di
Bisanzio, e delle mie scarpe morbide, pagate un ducato
d'argento al mercato di Rialto.
- E adesso carezzavo i tuoi piedi nudi, Thalata,
mia bambina, mio tutto. Ci eravamo rifugiati nella
Città dei Morti, l'antica necropoli a pochi
passi dal mare, certi che lì non sarebbero
venuti a cercarci. Troppe superstizioni, troppe
terrifiche leggende legate a quei luoghi di sassi e di
pietre intrise di cupe maledizioni, per spingere un
manipolo di pescatori a frugare tra i rovi di quella
spianata incisa tra gli spogli e l'antico uliveto.
Bisognava soltanto attendere l'alba e sarebbe arrivata
la nave: il capitano era di Chioggia, amava il vino e
le donne, ma ancora di più il tintinnio d'un
sacchetto di ducati sul marmo del suo tavolino. Ci si
poteva fidare, aveva al collo un chiodo della Santa
Croce (regalo d'una badessa), non bestemmiava nemmeno
quando era ubriaco, Thalata, è forse di lui che
vuoi che ti parli? Thalata, vorrei avere un mantello
di lana e una coperta di broccato, vorrei fosse questo
il drappo sotto il quale consumare questa notte che
sognavo diversa, che speravo fosse un preludio alla
certezza di saperti mia... Accostai la borraccia alle
tue labbra arse di febbre. Bevesti avidamente, poi:
«Raccontami la leggenda degli ulivi,
Marco».
- Già la sapevi. Era con quella storia,
che ti avevo incantata, prendendoti nella mia rete,
mio pesciolino dagli occhi saraceni. Ma non c'era che
il vento, intorno, su di noi e contro di noi, vento e
basta, e il cielo non accennava a schiarire. Ti
carezzavo i capelli e tu parevi rasserenata.
- «Un tempo - cominciai - gli ulivi erano
gli alberi più dritti e forti e belli del mondo
conosciuto; così, la notte in cui i soldati
vennero ad arrestare Gesù Cristo, non
destò meraviglia sentir dire al centurione:
"Bisognerà tagliare un ulivo, e farne una croce
a cui appendere questo bestemmiatore!". Parlò a
voce alta, il romano, così da far capire che
chi ha la spada comanda, e chi ha le mani legate
dietro la schiena deve solo aspettare il giorno e
l'ora per morire. Tutti credettero che fosse il vento,
a spettinare le siepi e le fronde, e non fecero caso a
quello che reputarono uno stormire appena più
sonoro del solito. Invece era la voce degli
ulivi».
- «Continua, Marco, non ti
fermare...».
- «Sì, mio amore per sempre, vado
avanti. Gli ulivi tremavano come fai tu adesso, si
toccavano l'un l'altro per infondersi coraggio, e
ripetevano che era una cosa orribile impiegare il
legno di uno di loro per il supplizio di un uomo non
solo innocente, ma buono: si diceva fosse addirittura
il figlio prediletto di Dio! Fu al più giovane
che venne l'idea. "Se ci piegassimo, ci torcessimo il
più possibile, se i nostri tronchi diventassero
gobbi, storti, nodosi, nemmeno il più abile dei
falegnami riuscirebbe a ricavare due assi per una
croce!". La proposta piacque, parve anzi la sola via
d'uscita onorevole; e tutti presero a contorcersi, a
chinarsi verso terra e ad avvitarsi su se stessi; si
lacerarono cortecce, s'inclinarono paurosamente rami
fino a un attimo prima dritti come il pennone d'una
galea, e non bastava il passo cadenzato dei soldati a
coprire lo scricchiolio del legno ferito e martoriato
eppure, Thalata, così incredibilmente
felice...».
- «Sto piangendo, Marco, ma sono lacrime
belle...».
- «Pietro ebbe modo di rinnegare tre volte
Cristo, prima del cantare del gallo; gli ulivi ci
misero lo stesso tempo, per cercare di salvare la vita
di un uomo che sapevano giusto. Venne l'alba, e non
c'era un solo ulivo dritto in tutto l'orto dei
Getzemani e in tutto il mondo conosciuto. Ma non
servì. Non bastò».
- Bastasse la mia voce, Thalata, a riportare il
sangue sulle tue gote bianche, sulle tue labbra nate
per i baci e così esangui e sottili, adesso.
Conosco una donna, a Venezia, dicono sia una strega,
mescola le erbe e ha mille tasche nella veste: in ogni
tasca un filtro, una pozione, un rimedio, un
medicamento, a me non importa se dorme con Satana e il
suo amante ha i piedi di capro e il fetore di
Belzebù, lei ti avrebbe guarita, Thalata, lei
ti avrebbe ridata ai miei baci...
- Non c'è più neanche un rumore.
Non ti cercano più. Sono andati alle barche,
useranno le lanterne per attirare i pesci e guardarsi
dagli scogli. Puoi metterti seduta, adesso, puoi
tirare su la testa e appoggiarti sul mio petto, ti va?
O preferisci dormire? Manca poco all'alba, se vuoi ti
racconto un'altra storia, tu lo sai che non mi mancano
le parole, ah quelle no di certo, sorridimi, Thalata,
come posso sopportare sulle spalle il peso di tutto
questo cielo se tu non mi sorridi?
- Thalata? Oh Dio santo, Thalata,
Thalata...
- Vorrei coprirti d'un lenzuolo di piume, e
scegliere per te le conchiglie più bianche e
lucenti e con esse segnare i contorni del tuo corpo
disteso al mio fianco, così che tutti sappiano
dove dorme il mio amore, la mia sposa venuta dal mare,
che ha negli occhi i sogni degli ulivi e il mistero
della notte, vorrei cercare per te le piume più
soffici e la madreperla più lucente, ed ecco
l'alba, invece, e mi accorgo che non so più
neanche pregare... Posso forse consegnarti alla terra
senza un sudario? Alla morte senza carezza? Ti bacio
le ciglia, amore per sempre addormentato, e poi la
bocca da cui ti volò via l'anima, senza un
rumore, come dai fiori se ne va il profumo. E ti
prometto che...
-
- 11 settembre 1998
- Oggi mi sono recata a visitare gli scavi
archeologici di Egnazia. Un'antica necropoli e i resti
d'una città distrutta: niente d'interessante, a
dire la verità. Non c'erano altri visitatori, e
già stavo per andarmene via, annoiata e delusa,
quando uno strano biancore mi attirò sui segni
di una tomba apparentemente identica a cento altre. Mi
chinai; c'erano molte piume candide e
un'infinità di piccolissime conchiglie,
bellissime, luminescenti e intatte. Raccolsi una
manciata di quell'inatteso bottino; mi
meravigliò la leggerezza di quelle piume
candide e la perfezione delle conchiglie; nessuna di
loro era scheggiata, neanche fossero state deposte
lì da pochi minuti o qualche ora al massimo.
Nel corso della notte, allora? Mi domandai e tutto mi
sembrò strano, incomprensibile. Tornai alla
biglietteria, mostrai le piume, le conchiglie,
balbettavo, faceva caldo eppure avevo l'impressione di
tremare.
- La faccia del custode era inespressiva.
«Non so che dirle, signorina. Succede. Sono qui
da sei anni, ed è già
capitato».
- «E quando? Per favore, non sia così
laconico, non si accorge che per me è
importante?». Mi pizzicavano gli occhi,
all'improvviso, senza ragione.
- «Più o meno in questo periodo, tre
anni fa... Arriva qualcuno e mi dice: "Guardi che
c'è una tomba tutta bianca". "Ci deve essere un
imbecille che si diverte a fare scherzi idioti ai
turisti", rispondo io».
- «Uno scherzo? E perché? Per
attirare l'interesse della stampa, forse? Ma se
nessuno ne ha mai fatto parole?». Ero arrabbiata,
ma troppo stanca per proseguire la discussione. Gli
girai le spalle, tenevo ancora nella mano
quell'insolito trofeo. Aprii le dita, piano, e
soffiai. Volò via una piuma, poi un'altra,
senza un rumore, come dai fiori se ne va il
profumo.
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