- L'ultima
notte
-
- Socchiusi gli occhi e la vidi. Veste bianca e
capelli buttati all'indietro, a offrire il viso ai
miei sguardi. Forse la sua pelle sapeva di latte... La
voce del carceriere spezzò
l'incantesimo.
- "Mi dispiace dovertelo dire. Ma sarà per
domani".
- Berretto floscio a tagliargli in due la fronte,
grigio il volto nel riquadro dello spioncino, e la sua
voce mal modulata, priva d'accenti, ad annerire la
luce della dea.
- "Ti dispiace; hai detto che ti dispiace"
sorrisi. Pietosa smorfia grottesca, il sorriso sulle
labbra di un uomo che morirà
l'indomani.
- "Sì. Oggi il re ha firmato la condanna:
all'alba ti verrà mozzata la testa. Puoi fare a
meno di credermi, ma ripeto che mi dispiace".
(Patetica intimità fra un prigioniero e il suo
secondino: maturata in mezzo ai topi, la sporcizia sul
pavimento, e lo stridere della chiave quattro volte al
giorno nella serratura - scodelle di minestra rancida
e acqua amara come il ferro... il ferro che domani si
prenderà il mio sangue).
- "Ti credo" risposi. Lui aprì la bocca
come per parlare ancora, poi scosse il capo e richiuse
lo spioncino. Buio. Di nuovo e ancora buio. Mi distesi
sul tavolaccio, afferrai una manciata di paglia e me
la strinsi sul petto con tutta la forza che mi era
rimasta - fu solo un dolore breve, una ferita da poco
- per soffocare la disperazione che mi graffiava il
cuore.
- "Ma se desideri qualcosa, chiamami. Non avere
riguardo". Dietro la porta sbarrata, ancora la voce di
quell'uomo: rauca, invecchiata nella rabbia lenita da
un vino aspro quanto la sua sorte. Esitava - udivo il
suo respiro breve, incerto - attendeva una risposta.
Ebbe il mio silenzio; comprese, andò
via.
- Il volto schiacciato sulla parete, cercavo con
l'indice la piccola crepa nel muro: la benevola
fessura da cui filtrava talvolta un brivido d'aria
fresca, pulita, l'aria che appartiene agli uomini
liberi - quelli che camminano e godono e si bevono
l'aria senza accorgersi che sa di sole. Quando si
è rinchiusi in una cella, l'odore è
sempre e solo quello della notte: odore greve, di
muffa e saliva sudore orina e sangue, un solo torbido
lezzo a plasmare l'angoscia che enumera le colpe e
urla i peccati.
- E adesso? - non finivo più di domandarmi
- e adesso?
- Un pugno di ore da vivere aggrappato al legno
alla paglia alla mia scodella vuota - la bocca
incollata al capezzolo di un muro scrostato, là
dove palpita la nenia del vento che spiana la fronte
degli uomini liberi, che del vento nulla sanno,
né sapranno mai. Silenzio. Morirò nel
rosa dell'alba di domani.
- Correvano come trottole, i pensieri. Si
accavallavano, si abbracciavano gli uni agli altri,
mescolando trionfi e peccati, visi di donna e rancori
e pentimenti, e una malinconia lieve, che faceva
sembrare dolci persino i ricordi legati agli schiaffi
dati e presi da bambino, nella piazza del paese.
L'affanno mi lacerava il petto.
- "Calmati" sussurrò con la sua voce di
bimba. (Aveva il profumo dei glicini a maggio, il suo
fiato sottile). Carezze di primavera a donar luce alla
polvere, a volare sul pavimento lordato dai topi e dai
miei passi di poeta assassino.
- La vidi. Nella penombra, la sua veste replicava
il chiarore bianco della luna. Pallida, membra
inventate dal dio dell'aurora, viso scolpito dalla
mano di chi conosce ogni regola di arcane geometrie e
prodigi celesti e incantamenti. Ai lati della bocca,
due pieghe accentuavano il sorriso.
- Riuscii a mettermi seduto. Ma mi occorse del
tempo, perché la testa girava e il sangue
rombava nelle orecchie - torrenti di linfa e paura mi
torcevano i nervi, e nelle pupille smaniavano lampi
colorati, aloni rossastri, scrosci di luce maligna.
Protesi il braccio verso di lei, allungai invano le
dita: non la toccai per timore di sporcarla.
- S'intenerì sulla mia devozione e
aggiunse: "Non c'è più motivo di avere
paura". Disse così, lei dolce e innocente
figlia della notte, lei sorella e vergine sposa e
angelo di quest'uomo senza Dio e senza domani. Lei
incommensurabilmente lontana dalle schiavitù
della carne, io a centellinare minuti e respiri, a
dolermi di ogni fremito, smarrito nella memoria che
era recinto al mio ieri (vivere la malora e incatenare
le parole in versi), accendere la fiamma dell'ultimo
amplesso consumato per amore (quando? e quale? ci fu
mai, questo dono?), e lo strazio di quel pensiero
feroce che non mi abbandonava più, notte e
giorno sempre lo stesso pensiero: datemi il pane
benedetto - lo intingerò nel vino consacrato e
lo inghiottirò senza sfiorarlo coi denti, come
ci aveva insegnato la suora nei giorni delle corse nei
prati e delle cacce ai nidi di rondine... i ricordi
picchiavano alle tempie, si facevano aghi di ghiaccio,
corona di spine.
- Improvviso, mi balenò davanti l'orrore
del fuoco dell'inferno. Caddi in ginocchio, atterrito
dalla visione nitida di ciò che sarebbe stato
il mio destino. "Reciterò l'atto di dolore"
balbettai congiungendo le mani.
- Lei scosse il capo, benevola. Le si arrossarono
le gote per la commozione quando portò l'indice
teso alle labbra. "Taci. Rimettiti seduto, invece.
C'è una cosa di cui ti debbo parlare..."
"Dopo!" gridai, rannicchiato sulla paglia marcia, le
mani premute sulle orecchie affinché i suoni
che udivo in lontananza acquistassero corpo e
chiarezza. Il miracolo si stava compiendo. Precise,
esatte, affioravano alla mente le preghiere che mia
madre mi aveva insegnato nell'infanzia: il
ringraziamento per il sole che si leva, scalda il
cielo e va a dormire; la benedizione che insaporiva un
cibo sempre troppo scarso e insipido per la nostra
fame ("Signore, ti offriamo il frutto delle nostre
fatiche e del lavoro dell'uomo..."). Parole scritte
dai santi per le mie labbra di peccatore, ultimo sorso
d'acqua da serbare in bocca prima
dell'inferno.
- "Ascoltami!" ripeté più volte,
veemente, la mia pallida amica; ma io non mi tenevo
più stretto alla sua voce: come un cieco
brancolavo nel buio e allungavo le braccia per
ritrovare Dio.
- "La tua vita è salva".
- Il cuore si fece pietra nel mio petto.
- "Hai capito bene, sì: vivrai. Per amor
tuo mi sono offerta alle voglie del Primo Consigliere,
e la sua intercessione presso il re bastò a
fargli revocare la sentenza. Adesso il boia si sta
ubriacando all'osteria: non dovrà avere la mano
ferma, all'alba di domani. Tu vivrai".
- Morsi l'aria, succhiai il gusto di quelle
parole. Vivrai. Aveva detto così. La testa di
un poeta assassino venduta nel candore e nel sangue
delle sue carni. (Scriverò per te i miei versi
più belli).
- "Sei felice?" Ancora la sua dolcezza a lavare
l'aria della mia prigione.
- "Sì" dissi, "Sì!" ripetei e poi
gridai; affondai le mani nella paglia e la gettai
verso il muro sbrecciato, uno sputo d'erba fradicia
addosso alla crepa da cui era entrata l'ombra -
soltanto l'ombra, però - di quell'aria, quel
vento, quella vita che avrei incontrato un'altra
volta, e nuovamente goduto, fino a cadere ubriaco,
fino a cadere sotto il peso del cielo spalancato sopra
la mia testa.
- "E ora dormi, mio uomo-bambino" mormorò.
"Dormi finalmente sereno, giacché domani si
aprirà la porta sul tuo volto radioso e
sarò io che ti condurrò per mano..." non
terminò la frase. "Dove?" domandai. (Ti
seguirò ovunque ti guideranno i tuoi capricci,
io coi miei anni malvissuti, tu morbida giovinezza...)
"Lo saprai domani" concluse, sorriso d'occhi e labbra
socchiuse, luce il suo volto, luce, luce...
- Dormii. Fu un sonno greve, senza rimorsi
né poesie. Lontanissimo da Dio.
-
- La chiave esaurì i suoi giri nella
serratura. "È l'ora" disse il secondino.
Fissava il pavimento sudicio e gli tremavano le mani.
Io risi. Risi sino a soffocare nel mio stesso riso. Ma
il suo volto rimaneva triste, aggrondato.
- Una morsa mi afferrò le viscere. "Sono
libero, no?!" articolai a fatica. Lui, rughe e
chiaroscuri, taceva. Un'ombra si stagliò nello
specchio della porta. Cappuccio in testa, scure
stretta in pugno. Con l'altra mano faceva rotolare un
ceppo; lo rizzò proprio al centro della cella.
"Perché?" gridai. Il boia si era inghiottito
tutta l'aria della stanza, la crepa nel muro si era
fatta piaga putrida, oscena, i topi scorrazzavano
tronfi, squittivano, mordevano... solo topi e il ceppo
e la lama a gettare rubini sul rosa dell'alba...
"Perché?"
- "È il volere del re. Te lo spiegai ieri
sera" mormorò stancamente il mio carceriere, e
in quell'attimo compresi che era stato lui e soltanto
lui l'amico - l'unico - a cui avrei voluto stringere
la mano, e supplicarlo di pregare Dio per la mia
anima, giacché temevo il fuoco eterno
più dei topi, molto più del ceppo e la
lama brandita contro di me... il boia mi
afferrò per la nuca; rantolai quando mi
buttò in ginocchio, guancia premuta sul legno,
schegge appuntite e nere come ultima carezza. Sbarrai
gli occhi: lei era tornata. Avanzava verso di me,
quasi volava; si raggomitolò al mio fianco,
veste bianca e pelle di latte...
- "Dimmi il tuo nome, presto!" ansimai, "Che io
possa maledirlo!"
- Il boia sogghignò mentre levava
altissima la scure.
- Lei risplendeva di una luce quieta e dolce.
Immota.
- "Inferno", disse piano, "Inferno" e mi
baciò la bocca.
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